Curiosità storiche, linguistiche, ecc. ecc. - O vero [sic] come si divertono i Nerd skifosi quando la geografia non basta più

Ma è il popolo che prende il nome dal territorio che abita o il contrario? 🤔

Mi sa che ci sono sia casi del primo tipo che del secondo...
 
La Lombardia dai Longobardi. Gl'italiani dall'Italia.
La Germania dai Germani. Gl'irlandesi dall'Irlandia.
C'è di tutto.
 

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Nestor Machno, il leggendario​

STORIA DELL'ANARCHIA. Difensore della libertà, personaggio dimenticato, comandante dell’esercito contadino che sconfisse i cosacchi dello zar
Nestor Machno, il leggendario

Machno nel 1920


Giancarlo Bocchi
Non aveva preso parte ad alcuna guerra Nestor Ivanovič Machno, ma per difendere l’indipendenza ucraina, i diritti dei contadini e degli operai e una società libertaria basata sull’autogestione, nel 1918 divenne uno stratega di grande valore e il fondatore della Machnovščina, l’Esercito insurrezionale rivoluzionario d’Ucraina del primo territorio libertario del Novecento.
I documenti delle sue gesta leggendarie, sepolti nei caveaux degli archivi moscoviti, fino a poco tempo fa potevano consultarli pochi studiosi filo-sovietici che condizionati da una palese ostilità politica avevano l’interesse a denigrare o a spingere la storia di Nestor Machno, l’Emiliano Zapata europeo e l’antesignano anarchico di Che Guevara, nell’oblio definitivo.
Oggi nella democratica Ucraina la memoria del grande rivoluzionario è ricordata solamente da un modesto monumento in bronzo dorato a Guljaj Pole (in ucraino Huliaipole), la cittadina tra Zaporizhzhia e Mariupol nella steppa che si estende dal fiume Dnepr al Mar d’Azov dove nacque il suo movimento. Nel bronzo Machno è seduto su una panca, la giacca chiusa dagli alamari, il colbacco d’agnello, il suo enorme spadone e guarda verso sinistra, immaginando il futuro e il compimento della rivoluzione.

Giovinezza
Il padre Ivan, ex servo della gleba, morì prematuramente lasciando orfani cinque figli a carico della moglie Evdokia. Nestor era convinto di essere nato il 27 ottobre 1889 perché non sapeva che i genitori avevano falsificato la sua data di nascita in modo che venisse arruolato con la ferma obbligatoria un anno più tardi. Questa preveggenza salvò la vita al giovane che dopo la Rivoluzione del 1905 aderì a un’organizzazione politica che si finanziava con espropri proletari, il Gruppo contadino anarco-comunista.
Da piccolo andava a scuola volentieri, ma si prendeva ampi spazi di libertà dalla classe praticando il suo unico svago, il pattinaggio su un fiume ghiacciato. Una volta cadde nelle acque gelata e si salvò dalla morte per congelamento per miracolo. «Da quel momento divenni uno studente veramente diligente. Così durante l’inverno studiavo e in estate portavo al pascolo pecore e vitelli per un ricco fattore» ricorda nelle sue memorie. Qualche anno più tardi esaltato dalle idee rivoluzionarie, girava armato. Coprendosi il volto con maschere o con il fango depredava i benestanti per dare i soldi ai diseredati. Il 26 agosto 1908 la sua lunga attività di giovane Robin Hood della steppa fu bruscamente interrotta dall’arresto. Aveva ormai vent’anni. Alto poco più di 1,60, aveva capelli castani e occhi chiari, luminosi, dallo sguardo sincero ma così intenso «da far bollire l’acqua di sorgente».
Subì la «ruota rossa» il giudizio sommario collettivo insieme a tutti gli appartenenti al gruppo anarchico e venne condannato con gli altri compagni all’impiccagione, anche se non era stato coinvolto in omicidi. Si salvò per la falsificazione della data di nascita fatta dai genitori, dove risultava minorenne. La pena dell’impiccagione venne commutata ai lavori forzati a vita, ma per le sue continue ribellioni in carcere venne relegato in catene nelle celle di rigore nei sotterranei della prigione di Butirki dove contrasse la tubercolosi. Durante la detenzione, nonostante la malattia, Machno cercò di farsi una cultura e studiò a fondo i testi del movimento anarchico. Prese il nome di battaglia di «Skromny» (il modesto). «Due cose mi colpirono e mi piacquero di Machno: la dolcezza del suo carattere ed il suo comportamento fraterno e modesto nei confronti dei compagni. La sua modestia era veramente esemplare» disse Pio Turroni che lo conobbe anni dopo.
In carcere Machno scrisse testi politici, riflessioni ma anche poesie rivoluzionarie: «Libriamo con coraggio la nostra gioia nella lotta – per la fede nella Comune che costruiremo…».
Il 2 marzo 1917, dopo la caduta dell’impero zarista, i compagni rivoluzionari lo liberarono. Aveva 29 anni. Contrariamente ad altri prigionieri non era segnato irrimediabilmente dalla lunga prigionia, aveva ancora la forza per veder realizzata la sua idea di anarchismo, che era basata sul concetto di «organizzazione» e non dell’azione individualista, ma che si opponeva a una idea accentratrice, verticistica e violenta come la «dittatura del proletariato».
Venne eletto al grido di «terra e libertà», novello Emiliano Zapata, a capo dell’Unione dei contadini che divenne l’autorità assoluta nel territorio nata per «costruire la propria vita dai propri desideri combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalismi ucraini».

Cooperative agricole
I contadini non accettarono l’idea delle Comuni agricole, vinse quella della confisca delle proprietà private dei latifondisti, i pomešciki, (uomini d’arme, che avevano ricevuto in concessione un podere) e dei kulaki (contadini che possedevano grandi appezzamenti di terreno lavorati a mezzadria), ai quali fu consentito di tenere solo le terre che potevano lavorare da soli. Le terre espropriate vennero redistribuite tra i contadini e create cooperative agricole. Furono sequestrate grandi quantità di armi ai latifondisti che servirono ad armare il Comitato della difesa della Rivoluzione, il primo nucleo del futuro esercito contadino di Machno, che serviva per scongiurare il ritorno allo zarismo dopo la rivolta del generale Lavr Kornilov contro il governo provvisorio.
Il 7 novembre (25 ottobre) una coalizione di bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra organizzò insurrezioni armate a Pietroburgo e Mosca rovesciando il governo provvisorio: la Rivoluzione d’ottobre, quella che Machno chiamò sempre «il colpo di Stato» portò al potere in Russia i soviet dei commissari del popolo. Secondo Machno contadini e operai ucraini non si rallegravano del «colpo di stato» perché «vedevano in ciò una nuova fase dell’intervento dei poteri nell’opera rivoluzionaria locale dei lavoratori e, di conseguenza, un nuovo attacco del Potere contro il popolo.» Anche i contadini seguaci di Machno la pensavano così, «La città non esiste che per questo; la sua idea e il suo sistema sono cattivi: favoriscono l’esistenza dell’imbecille, il governo.» In quei giorni, Machno, con il sostegno della popolazione, estese in Ucraina il movimento libertario ad altre cittadine vicine. Esautorati i rappresentanti del governo provvisorio, si dovettero preparare le difese per il pericolo dei cosacchi filo-zaristi che tornavano dal fronte, che per Machno erano «… i boia dei lavoratori della Russia che per un rublo dello zar e un bicchiere di vino erano sempre pronti a crocefiggere».

Battaglione libero
Per difendere il suo popolo Machno costituì il «Battaglione libero» che fu la prima occasione per il rivoluzionario ucraino di mostrare il suo talento militare.
Sul ponte di Kickaskij sul Dnepr, le forze di Machno, alleandosi con i bolscevichi e i socialisti rivoluzionari, bloccarono la cavalleria cosacca, ottenendo una vittoria inaspettata.
Nel marzo del 1918 dopo la firma della pace di Brest-Litovsk, voluta da Lenin, che Machno definì «la morte della rivoluzione e dei rivoluzionari», entrarono in Ucraina, ceduta al nemico, le forze di occupazione degli eserciti tedesco e austriaco forti di 200mila soldati.
«Quanto ai lavoratori rivoluzionari ucraini, essi furono lasciati… disarmati alla mercé dei boia della rivoluzione provenienti dall’ Ovest, poiché il comando rivoluzionario ritirò le armi dall’Ucraina o , nella sua fuga, le abbandonò alle truppe tedesche».
Machno riuscì a imporsi sulle divisioni all’interno del gruppo anarchico che avevano provocato «il terrore rivoluzionario» e a riportare tutto sotto il suo controllo. Nel frattempo anche il conflitto con le forze «nazionaliste» si era riacceso. Il «Battaglione libero» era stato attaccato e disarmato. Non era più possibile affrontare in campo aperto gli austro-tedeschi che avevano attraversato il fiume Dnepr e attaccato Guljaj Pole. Nel mese di aprile Machno decise di iniziare la guerra partigiana e iniziò un viaggio importante per cercare aiuti attraverso la Russia rivoluzionaria. Anche se la Ceka (la polizia politica sovietica) e l’esercito bolscevico, con la scusa di combattere il «banditismo», avevano attaccato i circoli anarchici nelle principali città russe, Machno tramite Jakov Sverdlov incontrò Lenin al quale illustrò la sua idea del «potere dal basso» e lo mise in guardia sugli errori commessi in Ucraina.
«Il furbo Lenin», come Machno lo avrebbe sempre chiamato, gli rispose, «La maggior parte degli anarchici pensa e scrive sul futuro senza comprendere il presente: questo divide noi comunisti da loro… nel presente sono inconsistenti, anzi patetici, proprio a causa del loro fanatismo inconsapevole, non hanno un reale legame neppure con il futuro…».
Ricorda Machno, «Nonostante il rispetto per Lenin che ho avuto durante il colloquio, il mio brutto carattere, per così dire, non mi ha permesso di intrattenermi oltre con lui». E dimostrò a Lenin con i fatti quanto si sbagliava. Machno tornò in Ucraina dove scoprì che gli austro-tedeschi avevano bruciato la casa della madre e assassinato il fratello maggiore, invalido di guerra.
Iniziò a organizzare la guerra partigiana nascosto nei boschi. Decise di attaccare il villaggio di Dibrivski difeso da un battaglione austriaco e da un centinaio di coloni tedeschi armati. Per compagni l’impresa sembrava folle, ma il rivoluzionario libertario attuò uno degli stratagemmi che lo avrebbero reso famoso. Con un piccolo gruppo di compagni, apparentemente disarmati, riuscì ad arrivare al centro del villaggio dove c’erano le postazioni di mitragliatrici del nemico. A un suo cenno i compagni spararono sugli austriaci, sorpresi e sgomenti, mentre il grosso dei partigiani attaccò alla periferia del villaggio. Gli austriaci impauriti si diedero alla fuga.
Machno aveva bisogno di quella vittoria per il morale dei suoi uomini e per incoraggiare le popolazioni vicine a insorgere. La voce del successo militare di Machno si sparse e fu onorato con l’appellativo di Bat’Ko (piccolo padre).
Le sue forze partigiane crescevano di giorno in giorno. A Temirovka gli austriaci lo ferirono gravemente. Machno sdraiato a terra quasi morente credette di essere finito, ma arrivarono i suoi compagni a salvarlo. Decise di dividere i suoi partigiani in piccoli gruppi che si riunivano solo per azioni in grande stile, infliggendo agli occupanti delle sonore lezioni.
Nel novembre del 1918 il Kaiser fu rovesciato dalla rivoluzione, la Germania firmò la resa e iniziò l’evacuazione delle truppe di occupazione in Ucraina.
Machno aveva un nuovo nemico da combattere, Simon Petljura, che con un colpo di Stato aveva abbattuto il governo centrale. Decise di creare nella regione un fronte unico insurrezionale, un’alleanza dei machnovisti con i comunisti, i socialisti rivoluzionari e gli altri anarchici. I machnovisti cacciarono per prima cosa le residue forze tedesche, occuparono poi Ekaterinoslav e sconfissero l’esercito di Simon Petljura.
Machno controllava ormai una vasta regione fino al Mar D’Azov, ma non tutte le formazioni militari alleate rispettavano gli ordini. Dovette reprimere saccheggi, requisizioni, minacciando di fucilare i suoi stessi comandanti.
Un nuovo pericolo incombeva. Nel gennaio del 1919, in accordo con i bolscevichi, passò all’offensiva contro i «bianchi», le forze reazionarie che volevano reinsediare uno zar. Il generale Denikin fu il primo ad attaccare i libertari, ma fu sconfitto e dovette battere in ritirata verso il Don e il Mar D’azov. Mise una taglia di mezzo milione di rubli sulla testa di Machno che però nessuno riuscì ad incassare.
Mentre i machnovisti stavano combattendo vittoriosamente contro i «bianchi» in aprile – maggio vennero attaccati alle spalle dai bolscevichi. Fu scatenata una campagna di calunnie contro Machno orchestrate da Trotski. Cercarono anche di assassinarlo dopo aver attirato gli ufficiali machnovisti in un agguato con la scusa di un consiglio militare.
Ruppe con i boscevichi, ma non cercò mai lo scontro anche se alcuni suoi comandanti erano stati arrestati e fucilati.
«Fermati! Leggi! Medita! Compagno dell’Armata rossa. Ti diranno che i machnovisti sono dei banditi dei contro rivoluzionari… e come umile schiavo del tuo comandante andrai arrestare e ad ammazzare. Chi? E per che cosa? Perché?», venne scritto dagli insorti rivoluzionari machnovisti su un manifesto per i soldati dell’ Armata Rossa.
«Soprattutto la slealtà di Trotski lo disgustava, il suo sistema di distruggere l’avversario prima con la calunnia , poi fisicamente: sistema che fu poi ereditato da Stalin», ricorda Pio Turroni, amico di Machno.
A settembre dopo la costituzione dell’Esercito Insurrezionale ucraino i machnovisti inflissero a Peregonova una pesante sconfitta ai «bianchi». I libertari di Machno conquistarono Aleksandrovsk e Ekaterinoslav. Per tutto il primo semestre del 1920 compirono azioni di guerriglia contro i «bianchi» e i bolscevichi. Molti contadini seguirono Machno armati solo di scuri, picche e vecchi fucili da caccia.
Contro il pericolo della vittoria dei «bianchi» alcuni reggimenti bolsevichi defezionarono e si schierano con Machno, portando armi e munizioni.
Una nuova forte offensiva dei «bianchi» costrinse i capi bolscevici a stipulare una tregua con Machno, che sottoscrisse con loro un accordo politico-militare. Anche se ricevette l’ordine di Trotski di andare sul fronte polacco, Machno, sospettando tranelli, si rifiutò di eseguirlo. Per ordine di Trotski i bolscevichi per nove mesi si accanirono con i civili fedeli a Machno uccidendo più di 200mila contadini e deportandone altrettanti. A novembre Machno e i bolscevichi attaccarono insieme i «bianchi» del generale Wrangel che dopo mesi di battaglie vennero definitivamente sconfitti. Le truppe machnoviste però tradite e accerchiate dai bolscevichi, che avevano nuovamente rotto i patti, subirono notevoli perdite. Machno con le sue esigue forze per un anno sconfisse ancora da est a ovest in vari scontri i bolscevichi e sfuggì alla Ceka che gli dava la caccia. Nel febbraio-marzo Trotski soffocò nel sangue la rivolta dei marinai e degli operari della base navale di Kronstadt e subito dopo venne annunciata la nuova politica economica (NEP) che spegneva nella repressione i movimenti contadini e la guerra civile. Ma i bolscevichi avevano ancora un problema aperto: distruggere il sistema sociale libertario di Machno.

A caccia di Machno
Agli inizi del 1921 gli furono inviate contro le truppe delle potenti divisioni di cavalleria. Machno avanzò fino ai confini della Galizia, ripassò il Dnepr e sfuggì all’accerchiamento. Tutte le divisioni dell’Armata rossa si misero alla caccia di Machno e delle sue truppe residue.
Come scrisse Errico Malatesta, «Il carattere squisitamente libertario del movimento e lo spirito egualitario e antiautoritario non potevano che scontrarsi con i metodi e i progetti dei bolscevichi».
In uno scontro con i bolscevichi, Machno fu ferito a una coscia e al basso ventre, ma trasportato su una carriola continuò a dare ordini, a scrivere messaggi ai suoi distaccamenti. Fu ferito nuovamente nell’agosto del 1921 in una battaglia con la Diciassettesima divisione di cavalleria. A causa delle ulteriori ferite, i suoi compagni decisero che doveva essere trasportato all’estero per essere curato.
Il 28 agosto passò il Dnepr e riparò prima in Romania dove fu internato. Aveva sul volto la cicatrice di una pallottola entrata dalla nuca e uscita dalla guancia. Il suo corpo portava i segni delle sue numerose battaglie: cicatrici di sciabolate, ferite di pallottole, una delle quali gli aveva fracassato una caviglia. Nonostante questo evase.
Entrò in Polonia dove fu arrestato, giudicato ma poi assolto.
Con i suoi compagni analizzò quello che era successo in Ucraina e fece uscire nel 1923 un testo su «Delo Truda»: «Lo Stato dovrà scomparire una volta per tutte dalla società futura… esso sarà sostituito da un sistema di organizzazioni autogestite di produzione consumo confederate tra di loro…».
Con l’aiuto dei compagni francesi nel 1924 raggiunge Parigi dove restò fino alla morte avvenuta nel luglio del 1934 per inedia e i postumi della tubercolosi e delle ferite di guerra. Le sue ultime parole furono per l’amatissima figlia: «Spero tu possa vivere sana e felice…».
Non sarà così. La moglie e la figlia verranno perseguitate e incarcerate prima dai nazisti e poi deportate dagli stalinisti in Siberia. Solo dopo la morte di Stalin saranno liberate ed esiliate in Kazakistan dove nel 1978 morirà la moglie Galina e nel 1993 la figlia Yelena.
Dal 1990 si svolgono ogni anno a Guljaj Pole delle celebrazioni per ricordare Nestor Machno al quale è stato anche dedicato un museo locale, ma le sue ceneri sono rimaste a Parigi nel cimitero di Père Lachaise vicino alle tombe dei comunardi parigini che abbracciarono le idee di Bakunin e Proudhon.

In questo momento il nome di Machno è indicatore della direzione che vorrà prendere il suo paese invaso dall’esercito di Putin. Si vuole dare il giusto ruolo nella storia a questo difensore della libertà o si vuole ancora rivalutare la sciagurata figura di Stepan Bandera, collaborazionista dei nazisti che qualcuno vorrebbe far passare per eroe nazionale?
Su questo dovrebbe riflettere Volodymyr Zelens’kyj più che continuare a fare sceneggiate da società dello spettacolo. Il pensiero e le gesta di Nestor Machno dovrebbero far riflettere anche noi su quanto la propaganda stalinista abbia pesato nel Novecento sulle convinzioni di tanti.
Le idee Nestor Machno, che sono state più realizzate che teoriche, non sono però morte, non sono state sepolte definitivamente dalla diffamazione e dalla disinformazione sovietica. E quello che sta accadendo oggi nel Rojava curdo ricorda molto, e speriamo con più fortuna e continuità, l’esperimento della Repubblica comunitaria di Guljaj Pole fondata da Machno, il leggendario comandante libertario dell’esercito contadino che sconfisse i cosacchi dello zar, l’esercito del golpista Simon Petljura, gli occupanti austro-tedeschi, le armate dei «bianchi» nostalgici dello Zar e anche l’Armata rossa.
 
Trovato questo schema evolutivo della parola "due".

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Non capisco come si possa dire che Yerku (armeno) sia l'evoluzione di "dwoh"...
 
Ultima modifica:
Non capisco come si possa dire che Yerku (armeno) sia l'evoluzione di "dwoh"...
È la maledizione del Caucaso e delle lingue caucasiche che deforma gl'idiomi allofoni caucasizzandoli. Emblematico il caso dell'osseto, lingua indoeuropea ormai per modo di dire .... (ha postposizioni, agglutinazione, ecc. tutti tratti mutuati dalle lingue caucasiche o turche) .... epperò "due" si dice:

дыууӕ dywwæ
 


"«Enigma», all’asta di Christie’s la macchina usata dai nazisti per i messaggi segreti​

15 ottobre 2022
(Science Photo Library / AGF)



Sarà il pezzo forte dell’asta online di Christie’s a Londra dedicata alla scienza e aperta alle offerte fino al 25 ottobre: una rara macchina Enigma a 4 rotori di Heimsoeth & Rinke. Il dispositivo elettromeccanico per cifrare e decifrare i messaggi segreti era utilizzato dalle forze armate naziste. Il suo valore è stimato tra 334.300 e 557.200 dollari. Si tratta di una delle prime Enigma M4 a 4 rotori prodotte dai tedeschi per la loro Marina militare, realizzata tra settembre e dicembre del 1941.

Dal documento originale di produzione, si evince che questa Enigma a 4 rotori della Marina tedesca fu rilasciata alla 24esima flottiglia di U-Boot, che aveva una base a Trondheim, in Norvegia, per fornire addestramento ai futuri comandanti dei sottomarini. Questa Enigma fu catturata dall’esercito norvegese alla fine della guerra e si ritiene che sia stata messa in servizio dalla Marina norvegese per le proprie operazioni di sicurezza dal 1948 al 1957, periodo durante il quale il mondo non sapeva che gli Alleati avevano decifrato con successo i messaggi di M4 Enigma.

È completamente originale, in condizioni di funzionamento, e presenta una caratteristica di sicurezza unica, con uno scudo metallico nero sul pannello luminoso per impedire a eventuali astanti di leggere i messaggi decifrati.

Pochissime M4 Enigma sono sopravvissute alla guerra. Le macchine M4 Enigma sono state prodotte in quantità molto inferiori rispetto alle macchine a 3 rotori. Inoltre, ogni U-Boot era dotato di più M4 Enigma, la maggior parte dei quali andò perduta quando i sottomarini furono affondati in combattimento o demoliti dagli equipaggi alla fine della guerra. Ai tedeschi fu ordinato di distruggere tutte le loro Enigma e, dopo la fine della guerra, il premier britannico Winston Churchill ordinò di distruggere tutte le macchine rimaste in mano agli inglesi.

Il ruolo significativo che l’M4 Enigma e gli sforzi segreti degli Alleati per sconfiggere i suoi codici giocarono nella vitale Battaglia dell’Atlantico è diventato sempre più noto, dal momento che gli storici hanno rivisitato la storia della Seconda Guerra Mondiale con informazioni declassificate di recente che vengono valutate ancora oggi. Questi fattori rendono l’M4 Enigma della Marina tedesca il pezzo storico da collezione per eccellenza e questo M4 all’asta in particolare è unico nel suo genere."
 

Questa Enigma fu catturata dall’esercito norvegese alla fine della guerra e si ritiene che sia stata messa in servizio dalla Marina norvegese per le proprie operazioni di sicurezza dal 1948 al 1957, periodo durante il quale il mondo non sapeva che gli Alleati avevano decifrato con successo i messaggi di M4 Enigma.​

Se non ricordo male, l'informazione che i britannici erano riusciti a decrittare Enigma fu resa nota solo qualche decennio dopo la fine della guerra, per cui durante tutto questo tempo essi continuarono a decifrare i messaggi in codice degli Stati che ancora usavano questa macchina.
 
Se non era per quest'articolo non sapevo neanche che a Bari esistesse un sacrario ...

POLITICA

Mattarella al sacrario di Bari che ricorda gli “Eroi d’oltremare”​

4 NOVEMBRE.

Il Monumento-Ossario raccoglie le spoglie dei morti italiani nelle guerra di aggressione. Il sito ha una storia lunga e complicata, costruito in ritardo e spostato da Roma per volere dell’Msi. Contiene anche le spoglie di militi della X Flottiglia Mas e del comandante del campo di concentramento di Arbe
Mattarella al sacrario di Bari che ricorda gli “Eroi d’oltremare”

L'ingresso del Monumento-Ossario di Bari - foto di Andrea Giuseppini

A quattro chilometri dal centro storico di Bari vecchia, nel quartiere Japigia, si trova il più grande cimitero militare italiano della Seconda guerra mondiale. Inaugurato nel dicembre del 1967, il «Sacrario dei caduti d’oltremare» custodisce i resti di oltre 75mila soldati italiani deceduti tra il 1940 e il 1945.
Se pensiamo alla Prima guerra mondiale e al suo sacrario principale – Redipuglia – non abbiamo difficoltà a capire perché sia stato scelto proprio quel luogo, nel Carso. Ma Bari? Cosa lega Bari ai soldati italiani morti nel corso della Seconda guerra mondiale?

IL «RAPPORTO SENTIMENTALE»
Nel 1952 il Commissariato generale per le onoranze ai caduti (Onorcaduti), struttura del ministero della difesa, sta per bandire un concorso per la progettazione di un «grandioso Monumento-Ossario nel parco della Rimembranza in Roma da destinare alla tumulazione delle Salme dei Caduti che, nel corrente anno, verranno rimpatriate dalla Grecia». Se ne attendono circa trentamila.
In attesa della costruzione del monumento, il generale Verdoja, commissario generale di Onorcaduti, chiede al sindaco di Bari, nel cui porto sono attese da lì a poco le prime urne, di ospitare temporaneamente le cassette presso il cimitero municipale. Il primo cittadino, avvocato Francesco Chieco, del partito nazionale monarchico, a capo di una giunta di cui fa parte anche l’Msi, approfitta della richiesta e rilancia: perché non costruire al sud, proprio a Bari, il nuovo monumento-ossario? Motiva Chieco: «Se nel grande cimitero di Redipuglia, che guarda le trincee carsiche e le vette dei monti, forse ancora bagnate dal sangue italiano, riposano le Spoglie dei militari caduti nella guerra del lontano 1915, il Sacrario Ossario, in cui riposerebbero le Spoglie dei militari italiani, che sparsero il loro eroico sangue sulle terre oltre l’Adriatico, dovrebbe, per uguale rapporto sentimentale, essere costruito in questa nostra Terra, che guarda quel mare e spinge al di là il suo sospiro sentimentale».

L’ANNUNCIO DI PACCIARDI
L’idea di costruire il monumento a Bari non piace affatto a Verdoja, che continua a ritenere Roma la sede più adeguata. Ma la proposta del sindaco trova diversi sostenitori specie tra i parlamentari di centro destra. Antonio Carcaterra, sottosegretario Dc eletto nel collegio di Bari, scrive a Verdoja «affinché voglia tenere nella dovuta considerazione il desiderio delle genti di Puglia e disporre in modo che il Sacrario Ossario venga costruito in quella terra, che costituisce l’estremo lembo della Patria verso le zone in cui i nostri soldati versarono il loro sangue». Anche i deputati Roberti e Michelini, esponenti dell’Msi, rivolgono al ministro della difesa Pacciardi (Pri) un’interrogazione in cui si chiede «come attuare il voto espresso all’unanimità dal consiglio comunale di Bari».
Ed ecco che l’11 dicembre 1952 il ministro Pacciardi annuncia che il presidente del consiglio De Gasperi ha deciso che il sacrario si farà a Bari e che esso accoglierà non solo le salme rimpatriate dalla Grecia e dall’Albania, ma tutti i resti dei caduti d’oltremare, perché Bari «è sita sulle sponde di quel mare che guarda i territori ove caddero i valorosi».
Da questo annuncio all’inaugurazione del sacrario passeranno tuttavia 15 anni: in bandi pubblici e relativi ricorsi, scelta dei terreni dove edificare il monumento, indecisioni sul numero effettivo delle salme da rimpatriare e quindi sulla grandezza e il costo del monumento…
Nel frattempo, però, nel porto di Bari continuano ad arrivare le urne. Dopo le prime mille accolte nel marzo del 1953 dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, nell’agosto del 1954 ne arrivano altre 3.316. Nel 1960 è il ministro della difesa Andreotti ad accogliere i resti di 3.876 caduti sul fronte greco-albanese. Questa volta però, il corteo dei camion scoperti che trasportano le urne non si dirige al cimitero (non c’è più posto) ma verso un deposito militare a Capurso, località non distante da Bari.

IL MONUMENTO FANTASMA
Due anni dopo è Puglia d’oggi, quotidiano fondato da Pinuccio Tatarella, a denunciare lo stato di abbandono in cui versano le migliaia di urne accatastate nel deposito: «Poveri i nostri caduti! Per l’ennesima volta ritorniamo sul problema del monumento fantasma che doveva, da circa dieci anni, accogliere le salme dei nostri caduti. I fondi sono stati stanziati? È stato fatto un concorso? Qual è la località in cui sarà eretto il Monumento Ossario?».

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Il Ministero della difesa corre ai ripari e il 3 novembre 1962 su di un terreno ancora coltivato ad ortaggi e reso fangoso dalle intense piogge dei giorni precedenti, si svolge la cerimonia della posa della prima pietra. L’inaugurazione spetterà, cinque anni dopo, a Giuseppe Saragat, primo presidente socialdemocratico della Repubblica italiana.
Al Sacrario dei caduti d’oltremare si accede salendo una scalinata in cima alla quale più che vederlo, si intuisce, al di là dell’immancabile linea ferroviaria che lo costeggia, il mare Adriatico. La scalinata introduce a un grande cortile, una sorta di chiostro ai cui lati si elevano alti colombari con le urne dei soldati identificati, divisi per luogo di provenienza: Jugoslavia, Albania, Grecia, Africa settentrionale e orientale. Al di sotto del cortile, in una cripta, sono conservati i resti dei militari ignoti.
Jugoslavia, Albania, Grecia, Africa. Potrebbe apparire banale, superfluo e scontato ricordarlo, ma i soldati che ogni anno vengono commemorati al sacrario di Bari non sono morti per difendere il proprio paese da un aggressore straniero. Sono morti appunto «oltremare», nelle guerre di aggressione che l’Italia ha scatenato contro altri.
Nel sacrario di Bari sono sepolti, ad esempio, Vincenzo Cujuli, comandante del campo di concentramento di Arbe (1.400 civili deceduti per fame e malattie) e Paride Mori, fascista che aderì alla Repubblica sociale italiana. Molto di recente, con una cerimonia ufficiale, sono stati tumulati i resti di 27 militari italiani ignoti, ritrovati in una fossa comune sull’isola croata di Cres. Tutti appartenenti alla X Flottiglia Mas, formazione che combatteva agli ordini dell’esercito tedesco.

SILENZIO SUI CRIMINI
Fa parte del Sacrario anche un piccolo museo in cui le principali battaglie vengono raccontate esclusivamente dal punto di vista della strategia militare. Non una parola sul perché di queste guerre e tanto meno sui crimini commessi dal Regio esercito, sull’utilizzo dei gas chimici, sui campi di concentramento le fucilazioni e i villaggi bruciati per rappresaglia.
Perché si è scelto di fare di questo luogo un “sacrario” e di questi morti eroi che hanno sacrificato la propria vita per la patria? Perché non costruire un luogo di memoria e riflessione, oppure, semplicemente, un cimitero di guerra in cui i parenti dei caduti, tutti, possano commemorare e ricordare i loro morti?




PS: Peccato per "Cres"
 
Peccato anche il passaggio

” i soldati che ogni anno vengono commemorati al sacrario di Bari non sono morti per difendere il proprio paese da un aggressore straniero. Sono morti appunto «oltremare», nelle guerre di aggressione che l’Italia ha scatenato contro altri.”

Perché nemmeno a Redipuglia, concettualmente, ci sono spoglie di militari morti per difendere il proprio paese, perlomeno non quelli morti tra il 24 maggio 1915 e il 24 ottobre 1917, che sono per la maggiore penso.


Io poi trovo un abominio fascista dei peggiori l’idolatria dei sacrari militari, e l’alienazione dalla realtà che questi luoghi, che trasformano in una massa indistinguibile gli esseri umani morti, vogliono volutamente trasmettere.

Anche questo è motivo per cui, quando qualche utente scrive che il popolo italiano ha già chiuso i conti con il fascismo, per me avrà sempre torto marcio.
 
Alla fine di tutte le considerazioni, che fortunatamente ( e forse non ce n'è rendiamo conto abbastanza) chiunque di qualsiasi idea può esprimere ( e anche al giorno d'oggi non è proprio così pacifico) rimane la pietà per quei ragazzi che " per un ideale, una truffa, un amore finito male" vennero mandati a farsi ammazzare , vestiti di divise di diverso colore ma in fin dei conti perfettamente uguali tra loro. Pietà e basta, per TUTTI loro, nessuna pietà per i mandanti. Questa la mia opinione. Punto.
 
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