subsahara
Coldest Ice
Due parole sulle lingue slave, se mi posso permettere, a corredo di quanto scritto dal Maestro Kaliningrad.
Esse, dal punto di vista sintattico-grammaticale sono tutte piuttosto simili. Questo si spiega con il loro alto grado di conservatività rispetto alla lingua comune (il paleo-slavo) da cui tutte hanno avuto origine. L’unica che è andata un po’ per i fatti suoi è il bulgaro/macedone, che ha abbandonato il ricco sistema analitico di declinazioni (le altre hanno conservato i sette casi originari) per approdare a una sintassi più simile alle odierne lingue romanze, con tanto di articolo determinativo (le altre, è risaputo, l’articolo non l’hanno) e ordine delle parole più rigido. Anche i tempi verbali funzionano diversamente in bulgaro.
Detto questo, non è che il bulgaro/macedone sia isolato rispetto al resto delle lingue slave: tra di esse infatti c’è un continuum, e l’anello di congiunzione tra bulgaro/macedone e serbo è rappresentato dal dialetto della città di Niš e dintorni (il torlacco).
Dal punto di vista della fonologia, si può dire che ognuna delle lingue slave si è evoluta in certi ambiti ed è rimasta conservativa in altri (sempre rispetto al paleo-slavo). Per esempio tutte, tranne il polacco, hanno perso le due originarie vocali nasali.
Le lingue slave meridionali, soprattutto il serbo/croato, esibiscono un consonantismo più conservativo mantenendo in più posizioni gli originali suoni velari: alle orecchie degli altri slavi il serbo suona molto “duro”; per contro invece le lingue slave orientali (soprattutto il russo) suonano molto “morbide” (con l’aggettivo “morbido” gli slavi si riferiscono alla grande presenza di suoni palatali o palatalizzati).
Di grandissima importanza è l’esito regolare (il “reflex”) nelle lingue slave moderne dell’antico suono vocalico jat, indicato con la lettera Ѣ nell’antico alfabeto cirillico. Senza entrare nel dettaglio, a mo’ di esempio, il reflex dello jat è il responsabile delle divergenze di pronuncia tra Serbia e Croazia (non tra serbo e croato) che si riscontrano in moltissime parole, quali reka/rijeka, hleb/hljeb, zvezda/zvijezda.
E a proposito di hleb/hljeb… questa parola può essere un pretesto per parlare delle divergenze lessicali tra le varie lingue slave. In Croazia hljeb è una parola conosciutissima; vuol dire semplicemente “pane”. Ma nei nuovi dizionari non compare, o viene bollata come “serbismo”: il prescrittivismo nazionalista impone l’uso esclusivo di kruh, che è vista come unica e pura parola croata per indicare il pane.
Insomma, l’esclusione o l’inclusione di parole nel vocabolario “ufficiale” di una lingua può essere un modo per differenziare o affrancare la lingua in questione da quelle dei vicini.
Io credo (non sono molto informato) che un po’ la stessa cosa sia successa (o stia succedendo) in Ucraina dopo la dissoluzione dell’URSS.
I dialetti occidentali dell’Ucraina sono infarciti di polonismi; man mano che ci si sposta verso est l’influenza polacca scema, e a est di Kiev diventa pressoché nulla (senza contare che nella metà orientale dell’Ucraina il russo è diffusissimo e in tanti posti maggioritario; come del resto pure a Odessa, dove nessuno parla ucraino). L’ucraino dei giorni nostri, per differenziarsi dal russo, si appoggia (o viene fatto appoggiare) parecchio al serbatoio lessicale dei dialetti rurali dell’ovest, i più “polacchi”.
In questo modo le differenze di vocabolario tra russo e ucraino diventano non proprio trascurabili. Il russo poi, in maniera molto più massiccia rispetto alle altre lingue slave occidentali e orientali, ha sempre pescato a piene mani per costruire la sua straordinaria tradizione letteraria dagli antichi testi di Cirillo e Metodio, scritti nel Vecchio Slavo Ecclesiastico. E il Vecchio Slavo Ecclesiastico, prestigiosissima e antica lingua di fede e cultura, non è altro che… il bulgaro arcaico.
Ed è grazie a questo corto circuito che il russo è la più “meridionale” di tutte le lingue slave non meridionali.
Esse, dal punto di vista sintattico-grammaticale sono tutte piuttosto simili. Questo si spiega con il loro alto grado di conservatività rispetto alla lingua comune (il paleo-slavo) da cui tutte hanno avuto origine. L’unica che è andata un po’ per i fatti suoi è il bulgaro/macedone, che ha abbandonato il ricco sistema analitico di declinazioni (le altre hanno conservato i sette casi originari) per approdare a una sintassi più simile alle odierne lingue romanze, con tanto di articolo determinativo (le altre, è risaputo, l’articolo non l’hanno) e ordine delle parole più rigido. Anche i tempi verbali funzionano diversamente in bulgaro.
Detto questo, non è che il bulgaro/macedone sia isolato rispetto al resto delle lingue slave: tra di esse infatti c’è un continuum, e l’anello di congiunzione tra bulgaro/macedone e serbo è rappresentato dal dialetto della città di Niš e dintorni (il torlacco).
Dal punto di vista della fonologia, si può dire che ognuna delle lingue slave si è evoluta in certi ambiti ed è rimasta conservativa in altri (sempre rispetto al paleo-slavo). Per esempio tutte, tranne il polacco, hanno perso le due originarie vocali nasali.
Le lingue slave meridionali, soprattutto il serbo/croato, esibiscono un consonantismo più conservativo mantenendo in più posizioni gli originali suoni velari: alle orecchie degli altri slavi il serbo suona molto “duro”; per contro invece le lingue slave orientali (soprattutto il russo) suonano molto “morbide” (con l’aggettivo “morbido” gli slavi si riferiscono alla grande presenza di suoni palatali o palatalizzati).
Di grandissima importanza è l’esito regolare (il “reflex”) nelle lingue slave moderne dell’antico suono vocalico jat, indicato con la lettera Ѣ nell’antico alfabeto cirillico. Senza entrare nel dettaglio, a mo’ di esempio, il reflex dello jat è il responsabile delle divergenze di pronuncia tra Serbia e Croazia (non tra serbo e croato) che si riscontrano in moltissime parole, quali reka/rijeka, hleb/hljeb, zvezda/zvijezda.
E a proposito di hleb/hljeb… questa parola può essere un pretesto per parlare delle divergenze lessicali tra le varie lingue slave. In Croazia hljeb è una parola conosciutissima; vuol dire semplicemente “pane”. Ma nei nuovi dizionari non compare, o viene bollata come “serbismo”: il prescrittivismo nazionalista impone l’uso esclusivo di kruh, che è vista come unica e pura parola croata per indicare il pane.
Insomma, l’esclusione o l’inclusione di parole nel vocabolario “ufficiale” di una lingua può essere un modo per differenziare o affrancare la lingua in questione da quelle dei vicini.
Io credo (non sono molto informato) che un po’ la stessa cosa sia successa (o stia succedendo) in Ucraina dopo la dissoluzione dell’URSS.
I dialetti occidentali dell’Ucraina sono infarciti di polonismi; man mano che ci si sposta verso est l’influenza polacca scema, e a est di Kiev diventa pressoché nulla (senza contare che nella metà orientale dell’Ucraina il russo è diffusissimo e in tanti posti maggioritario; come del resto pure a Odessa, dove nessuno parla ucraino). L’ucraino dei giorni nostri, per differenziarsi dal russo, si appoggia (o viene fatto appoggiare) parecchio al serbatoio lessicale dei dialetti rurali dell’ovest, i più “polacchi”.
In questo modo le differenze di vocabolario tra russo e ucraino diventano non proprio trascurabili. Il russo poi, in maniera molto più massiccia rispetto alle altre lingue slave occidentali e orientali, ha sempre pescato a piene mani per costruire la sua straordinaria tradizione letteraria dagli antichi testi di Cirillo e Metodio, scritti nel Vecchio Slavo Ecclesiastico. E il Vecchio Slavo Ecclesiastico, prestigiosissima e antica lingua di fede e cultura, non è altro che… il bulgaro arcaico.
Ed è grazie a questo corto circuito che il russo è la più “meridionale” di tutte le lingue slave non meridionali.