Vettore2480
VETTORE
Ciao a tutti,
Vi prego di rispondere senza quotare poiché è molto lungo!
Sto leggendo il libro di un colto Professore universitario, Franco Perco, laureato prima in Giurisprudenza poi in Scienze Naturali, zoologo. Il libro si chiama “Andare in Natura” e sferra un severo attacco a tutti coloro che praticano attività outdoor, sport in particolare, accusandoli di essere molto più invasivi di quanto possano credere.
Obiettivo del libro è innescare un senso di colpa nei cosiddetti “fruitori”, quelli preferiscono passare il loro tempo libero nella aree naturali, piuttosto che altrove.
Dopo lunghe e forbite premesse filosofiche, che sottolineano la netta superiorità di alcuni (pochissimi) individui dotati di “poli-empatia” verso la natura nel suo complesso, il Professore si concentra sull’analisi dei fruitori di tipo ricreativo, e dedica una parte del trattato all’esame di ciascuna categoria (non solo sportivi, anche camminatori, fotografi o semplici gitanti fuori porta), facendo sempre emergere un marcato disprezzo.
Venendo al punto che più ci interessa, il Professore definisce gli Sciapinisti: “Skifosi”.
Per la nostra community l’aggettivo Skifoso è un gran complimento, ho tuttavia il sospetto che l’autore non sia un utente di Skiforum, pertanto il suo “skifoso”non è una lode, e le skife che forse avrà già ricevuto da alcuni lettori, non sono propriamente dei “like”.
Perché l’autore si sente legittimato ad usare toni così offensivi nei confronti di persone che praticano lo scialpinismo? Si tratta di uno sport con radici secolari che, a mio modesto parere merita, pienissima dignità.
Menti che sono state aperte dallo studio del diritto e delle scienze, non dovrebbero esternare tanto disprezzo verso i propri simili.
Mi perdoni l’autore per il “simili”, c’è infatti una visione misantropica che fa emergere, in ogni angolo del libro, il concetto di superiorità della natura selvaggia rispetto alla stupidità umana.
L’autore sgombra immediatamente il campo per immunizzarsi da qualsiasi critica, dicendo che lui non dà giudizi, che lui ha dei pregiudizi, che i permalosi possono astenersi dalla lettura, che chi legge e si offende ha avuto la giusta medicina. In pratica il suo primario obiettivo è offendere i superficiali permalosi, più lettori si offendono più l’obiettivo è centrato, poiché la sua azione moralizzatrice è stata efficace.
Vi chiederete come mai mi sia venuto in mente di comprarmi questa perla di trattato, veniamo quindi al nocciolo della questione.
Quest’uomo di grande cultura è oggi direttore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.
I Monti Sibillini rappresentano l’unica vera area montuosa del Centro Italia dove si può praticare lo Scialpinismo su dislivelli significativi.
L’Ente Parco è stato istituito dalla legge ed ha quindi potere regolamentare che assume forza di legge. Le regole creano limitazioni delle libertà personali degli individui, con tanto di sanzioni in caso di inosservanza.
Non conosco lo statuto dell’Ente, non so quindi quanto potere decisionale spetti alla figura amministrativa del Direttore. Ho però fondati motivi per pensare che il suo pensiero sia parecchio influente in quell’ambito, e le sue opinioni molto rispettate e condivise dalla presidenza e dal Consiglio Direttivo.
Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini col passare degli anni sta raccogliendo molte critiche da parte delle popolazioni locali, a causa di provvedimenti poco democratici e a volte molto antipatici. Se queste sono le premesse, non mi stupirei se lo Sciapinismo fosse il prossimo candidato a finire sull’altare sacrificale, in nome del sommo puritanesimo.
Io posso anche concordare sull’importanza di un ente preposto a regolamentare le varie attività, con finalità di tutela e conservazione, ma non sul fatto che le regole possano essere ispirate ad antipatie personali e a pregiudizi palesemente dichiarati.
Da ultimo vorrei segnalare che l’Autore del libro è un noto e stimato cacciatore, credo specializzato in ungulati (camosci, caprioli, etc.).
Il libro tende infatti a giustificare, più degli altri fruitori, i cacciatori (ed in parte anche i pescatori e raccoglitori), elevandoli ad uniche categorie ricreazionali legittimate ad “andare in natura”, sulla base di una teoria sulla quale non mi dilungo (in soldoni, unici gruppi di interesse realmente interessati alla conservazione in ottica di perpetuazione delle risorse rinnovabili).
L’Autore sostiene che il gusto di fare sport all’aria aperta, in ambienti naturali di pregio, sia un “piccolo egoismo”, da mettere assolutamente in secondo piano rispetto all’interesse generale della tutela del territorio, fini qui tutto chiaro.
La visione è talmente estremista e purista che, nella sua apparente coerenza, non si presta facilmente alle critiche. Un anello che però mi manca, ciò che non capisco, è perché la caccia non debba rientrare a pieno titolo tra gli egoismi, ma al contrario essere elevata al rango di nobile arte da esercitare in osservanza di una seria regolamentazione, finalizzata al controllo della selvaggina e alla conservazione.
Ritengo che chi “fulmina” un camoscio, in applicazione delle regole sugli abbattimenti programmati finalizzati al mantenimento dell’equilibrio per la conservazione della biodiversità, lo faccia in primis per godere del proprio egoistico brivido dietro la schiena. Chi spara è comunque egoista, perché quello è il Suo camoscio, un camoscio non risusciterà per poter regalare il brivido anche ad un altro cacciatore. A mio avviso, chi lascia una traccia in neve fresca con la smania di andare per primo è meno egoista, poiché alla prossima nevicata la traccia scomparirà, ed il pendio potrà essere nuovamente disegnato da un altro scialpinista.
Io non ho nulla contro l’Autore del Libro, poiché ho profondo rispetto per le persone anziane, a maggior ragione quando esse sono colte.
Critico però un sistema che, forse, conferisce troppo potere ad alcune ristrette élite, con effetti che investono poi collettività molto più ampie.
Quando faccio scialpinismo non ho la pretesa di sentirmi un salvatore della biodiversità, al pari del cacciatore di cervi. Confesso che anch’io, nel mio piccolo o grande egoismo, “vado in natura”, e mi dispiace non avere una consapevolezza tale da poter innescare in me il profondo senso di colpa che l’autore mi accusa di non patire. A questo punto direi: “beata ignoranza!”
Vi prego di rispondere senza quotare poiché è molto lungo!
Sto leggendo il libro di un colto Professore universitario, Franco Perco, laureato prima in Giurisprudenza poi in Scienze Naturali, zoologo. Il libro si chiama “Andare in Natura” e sferra un severo attacco a tutti coloro che praticano attività outdoor, sport in particolare, accusandoli di essere molto più invasivi di quanto possano credere.
Obiettivo del libro è innescare un senso di colpa nei cosiddetti “fruitori”, quelli preferiscono passare il loro tempo libero nella aree naturali, piuttosto che altrove.
Dopo lunghe e forbite premesse filosofiche, che sottolineano la netta superiorità di alcuni (pochissimi) individui dotati di “poli-empatia” verso la natura nel suo complesso, il Professore si concentra sull’analisi dei fruitori di tipo ricreativo, e dedica una parte del trattato all’esame di ciascuna categoria (non solo sportivi, anche camminatori, fotografi o semplici gitanti fuori porta), facendo sempre emergere un marcato disprezzo.
Venendo al punto che più ci interessa, il Professore definisce gli Sciapinisti: “Skifosi”.
Per la nostra community l’aggettivo Skifoso è un gran complimento, ho tuttavia il sospetto che l’autore non sia un utente di Skiforum, pertanto il suo “skifoso”non è una lode, e le skife che forse avrà già ricevuto da alcuni lettori, non sono propriamente dei “like”.
Perché l’autore si sente legittimato ad usare toni così offensivi nei confronti di persone che praticano lo scialpinismo? Si tratta di uno sport con radici secolari che, a mio modesto parere merita, pienissima dignità.
Menti che sono state aperte dallo studio del diritto e delle scienze, non dovrebbero esternare tanto disprezzo verso i propri simili.
Mi perdoni l’autore per il “simili”, c’è infatti una visione misantropica che fa emergere, in ogni angolo del libro, il concetto di superiorità della natura selvaggia rispetto alla stupidità umana.
L’autore sgombra immediatamente il campo per immunizzarsi da qualsiasi critica, dicendo che lui non dà giudizi, che lui ha dei pregiudizi, che i permalosi possono astenersi dalla lettura, che chi legge e si offende ha avuto la giusta medicina. In pratica il suo primario obiettivo è offendere i superficiali permalosi, più lettori si offendono più l’obiettivo è centrato, poiché la sua azione moralizzatrice è stata efficace.
Vi chiederete come mai mi sia venuto in mente di comprarmi questa perla di trattato, veniamo quindi al nocciolo della questione.
Quest’uomo di grande cultura è oggi direttore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.
I Monti Sibillini rappresentano l’unica vera area montuosa del Centro Italia dove si può praticare lo Scialpinismo su dislivelli significativi.
L’Ente Parco è stato istituito dalla legge ed ha quindi potere regolamentare che assume forza di legge. Le regole creano limitazioni delle libertà personali degli individui, con tanto di sanzioni in caso di inosservanza.
Non conosco lo statuto dell’Ente, non so quindi quanto potere decisionale spetti alla figura amministrativa del Direttore. Ho però fondati motivi per pensare che il suo pensiero sia parecchio influente in quell’ambito, e le sue opinioni molto rispettate e condivise dalla presidenza e dal Consiglio Direttivo.
Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini col passare degli anni sta raccogliendo molte critiche da parte delle popolazioni locali, a causa di provvedimenti poco democratici e a volte molto antipatici. Se queste sono le premesse, non mi stupirei se lo Sciapinismo fosse il prossimo candidato a finire sull’altare sacrificale, in nome del sommo puritanesimo.
Io posso anche concordare sull’importanza di un ente preposto a regolamentare le varie attività, con finalità di tutela e conservazione, ma non sul fatto che le regole possano essere ispirate ad antipatie personali e a pregiudizi palesemente dichiarati.
Da ultimo vorrei segnalare che l’Autore del libro è un noto e stimato cacciatore, credo specializzato in ungulati (camosci, caprioli, etc.).
Il libro tende infatti a giustificare, più degli altri fruitori, i cacciatori (ed in parte anche i pescatori e raccoglitori), elevandoli ad uniche categorie ricreazionali legittimate ad “andare in natura”, sulla base di una teoria sulla quale non mi dilungo (in soldoni, unici gruppi di interesse realmente interessati alla conservazione in ottica di perpetuazione delle risorse rinnovabili).
L’Autore sostiene che il gusto di fare sport all’aria aperta, in ambienti naturali di pregio, sia un “piccolo egoismo”, da mettere assolutamente in secondo piano rispetto all’interesse generale della tutela del territorio, fini qui tutto chiaro.
La visione è talmente estremista e purista che, nella sua apparente coerenza, non si presta facilmente alle critiche. Un anello che però mi manca, ciò che non capisco, è perché la caccia non debba rientrare a pieno titolo tra gli egoismi, ma al contrario essere elevata al rango di nobile arte da esercitare in osservanza di una seria regolamentazione, finalizzata al controllo della selvaggina e alla conservazione.
Ritengo che chi “fulmina” un camoscio, in applicazione delle regole sugli abbattimenti programmati finalizzati al mantenimento dell’equilibrio per la conservazione della biodiversità, lo faccia in primis per godere del proprio egoistico brivido dietro la schiena. Chi spara è comunque egoista, perché quello è il Suo camoscio, un camoscio non risusciterà per poter regalare il brivido anche ad un altro cacciatore. A mio avviso, chi lascia una traccia in neve fresca con la smania di andare per primo è meno egoista, poiché alla prossima nevicata la traccia scomparirà, ed il pendio potrà essere nuovamente disegnato da un altro scialpinista.
Io non ho nulla contro l’Autore del Libro, poiché ho profondo rispetto per le persone anziane, a maggior ragione quando esse sono colte.
Critico però un sistema che, forse, conferisce troppo potere ad alcune ristrette élite, con effetti che investono poi collettività molto più ampie.
Quando faccio scialpinismo non ho la pretesa di sentirmi un salvatore della biodiversità, al pari del cacciatore di cervi. Confesso che anch’io, nel mio piccolo o grande egoismo, “vado in natura”, e mi dispiace non avere una consapevolezza tale da poter innescare in me il profondo senso di colpa che l’autore mi accusa di non patire. A questo punto direi: “beata ignoranza!”