Interno cervello, un pomeriggio come tanti di noia lavorativa. Coraggiosa Me con tono incalzante, sta interrogando Normale ME.
Coraggiosa Me: Sei andata per monti per conto tuo?
Normale Me: Sì!
Coraggiosa Me: Sei morta?
Normale Me: Beh, no!
Coraggiosa Me: Ti sei divertita?
Normale Me: Molto!
Coraggiosa Me: Eri soddisfatta alla fine?
Normale Me: Tantissimo! Coraggiosa Me: Ottimo. Vuoi riprovare aggiungendo qualcosa di nuovo? Normale Me: Mi piacerebbe, sì.
Coraggiosa Me: Bon, vai: due notti in rifugio e tre giorni a zonzo.
Normale Me: Ma...Boh, non so... Facciamo due giorni e una notte, per iniziare?
Coraggiosa Me: Sei proprio sempre la solita...Va bene, dai...un passo per volta, non sia mai che evolvi più in fretta del previsto!
Comincia con questa scena la mia avventura. Dopo alcune escursioni da sola, decido che è giunto il momento di provare a spostare l’asticella dei giri in solitaria. Me ne sto via a dormire, in rifugio, da sola. Meta: le Pale di San Martino. Chiamo il rifugio, mi assicuro una branda e parto.
Mi infilo in auto e sotto un cielo plumbeo risalgo la Valsugana, poi il Primiero fino a San Martino. Man mano che mi avvicino alla partenza, qualcuno si diverte a giocare con la cortina di nubi avvolta attorno alle Pale: un istante la chiude e un istante dopo la riapre, lasciandone trapelare ora la punta, ora la base. Questo continuo gioco sembra un invito: non ti mostro tutto, devi venire a vedere di persona cosa c’è quassù, forza!
Parcheggio, caccio due ultime cose nello zaino, e mi infilo nel primo ovetto che passa. Arrivo alla funivia, mancano pochi minuti alla partenza e io mi godo l’aria pungente del mattino (ormai non più tanto primo).
La gondola rossa parte e in pochi minuti arrivo “su”.
Esco e mi scappa una piccola imprecazione di meraviglia (sì, esistono). Che posto è questo?
La funivia si è presa un po’ troppa rincorsa e io sono finita su un altro pianeta?
Mi guardo attorno un attimo “stranita”, e cerco di mettermi in modalità operativa. Oggi devo arrivare sulla Fradusta, passando per il 707, il 709 ed il 711B. E poi devo scendere al Pradidali, per 709A. E’ il mantra che mi ripeto da questa mattina (e che mi sono scritta su un foglietto, non si sa mai). Bene, so a memoria i numeri: è già qualcosa!
Mi incammino ancora un po’ frastornata da questo strano mondo, lasciandomi alle spalle il Rifugio Rosetta, e cominciando a spingermi verso il centro dell’altipiano. Mano a mano che accumulo passi, accumulo anche stupore. Questo luogo è assurdo.
Pietre, pietre, pietre, pietre. Ah certo, e anche nuvoloni e nebbie alte, per l’occasione! Ogni tanto qualche fiorellino giallo si mette in mostra in mezzo alle...indovinate un po’...pietre, bravi!
Cammino un bel po’ guardandomi attorno, e ad un certo punto vedo l’unico punto di riferimento inequivocabile della mattinata: quel poco che resta del ghiacciaio della Fradusta.
Bon, se per caso mi perdo, devo solo ricordarmi di guardare quello. Solo che fa proprio tristezza, poverino. Io non l’ho mai visto prima, ma oggi il nome ghiacciaio sembra un po’ troppo “altisonante” per quella povera parete gelata.
Arrivo al bivio per il 711B e, dopo un controllo su Orux Maps, ricomincio a camminare in mezzo alle pietre. Fino ad ora, escludendo quelle che gravitavano attorno alla funivia, ho incontrato 2 persone. Mi inoltro nel saliscendi della traccia (siano lodati gli ometti e le nuvole che se ne stanno alte!) e arrivata ad un altro bivio, incontro altre 2 persone. Stop. Fino alla cima, questo è il numero massimo di persone incontrate. Siamo io, queste 4 persone diluite nell’arco di un’ora e miliardi di pietre, pietroni, pietrine. Comincio a sentirmi lontana dal monto dei vivi.
Sempre con un occhio sulla mappa, risalgo piano piano sulla spalla che porta in cima alla Fradusta e ogni tanto osservo i giochi delle nubi dentro i “fiordi” al fianco della cima.
Con calma arrivo su e, sorpresa! C’è vita sulla Luna! Trovo un gruppo CAI a cui scatto una foto dopo essermi gustata per pochi minuti la cima e le ombre che le nubi gettano sull’altipiano.
Saluto il gruppo e comincio a scendere, pian pianino, per tornare al bivio che mi porterà sul 709A. Interessante che, pur essendo esattamente sulla traccia di salita, io non ricordi assolutamente nulla di quella parte di sentiero. Ah, benon! Arrivo al bivio e mi cibo di barrette, che magari i neuroni ricominciano a funzionare. Imbocco il 709A e comincio a scendere verso il rifugio.
Sono di nuovo da sola. Scendo per ghiaioni e tornantini, tiro pure fuori i bastoncini (che, in realtà, mi impicciano più che aiutarmi) e scendo, scendo, scendo fino a che non arrivo ad un pianoro dove il mondo sembra finire in nubi.
Invece, basta affacciarsi per scoprire che il sentiero continua a scendere, inoltrandosi proprio in quella nuvola che si è incastrata là sotto. La visibilità è buona, ma sono sola. L’unico segno di vita è l’eco dei miei bastoncini. Tic, tic, tic, tic, sempre più giù, passando sotto grotte e lasciandomi alle spalle una muraglia di roccia che mi chiude la visuale.
Tic, tic, tic, tic, ancora bastoncini, ancora il loro eco, unico suono dei dintorni.
Orfeo avrebbe potuto benissimo venirla a prendere in mezzo a questa nuvola la sua Euridice. Per qualche istante, mi sento un po’ persa: troppo nulla. Poi la nuvola si alza, da lontano mi arriva la voce di qualcuno che sta esplorando il laghetto Pradidali, e finalmente anche il rifugio si mostra. Poche volte sono stata così contenta di sapere che avrei trovato “uomini” di lì a poco.
Comincia quella che avevo immaginato sarebbe stata la parte più difficile per me: gestire le ore da sola in rifugio. Per una sciocca questione di zaino, ho lasciato a casa il libro che volevo portarmi. Errore! Per fortuna, a far da surrogato al libro, c’è l’ultimo numero di Pareti. Via, leggiamo attentamente, fingendoci interessate a come ci allena per l’arrampicata su canne...
Fra un articolo e un solitario arriva l’ora di cena. Sono impaziente: chissà a fianco di chi mi siederò. Spero che abbiano tante belle storie da raccontare, i miei commensali: starò volentieri in silenzio a sentire di come era la tacca svasa di quella via, oppure di quella volta che han sbagliato le doppie o di quando si son trovati in mezzo alla bufera... Sarebbe davvero bello.
(Disclaimer: potete saltare le prossime righe se volete evitarvi uno sfogo antisociale.)
Peccato che non vada così. Finisco a tavola assieme all’unico gruppetto di “cittadini” presente in rifugio, E vabbè, fin qui, potrebbe anche andare bene. Il problema è che tali signori non fanno altro che lamentrarsi. Perché la pasta non c’è integrale. Perché la carne è fredda. Perché i funghi non sono di bosco (ma dove diavolo lo vedi il bosco quassù!?!?!?!? Ma sei cretina!?!?!??!?!!??). Perché non c’è scelta nel menù, l’acqua non è potabile, non c’è pane nero, in camera con loro c’è altra gente etc. etc. Io non sono di certo una di quelle persone che si batte per “chiudere” la montagna. Credo che una persona che si fa anche solo 50mt di dislivello a giornata, se li fa con passione e cuore e facendosi rapire dalla montagna, faccia bene a farli. Non sono per la montagna come luogo ad uso esclusivo di pochi eletti iniziati (perché, banalmente, io non sono un’eletta iniziata). Ma ci sono cose che non tollero! La maleducazione ricca di pretese stupide, in quota, è una cosa che detesto. Andate al Grand Hotel a Jesolo, se non sapete adattarvi alle piccole “scomodità” (ma sono davvero tali???) del rifugio, nemmeno per una notte!
La mattina, di fronte ad altri capricci da asilo sulla qualità della colazione, mangio in fretta, saluto i gestori (troppo pazienti con le teste di rapa) e me scappo lontano da questo specifico genere umano! E io che pensavo che la vista delle cime che si colorano al mattino potesse essere nutrimento sufficiente per tutti. Stolta.
(Fine sofogo antisociale)
Oggi devo risalire il 715, e poi il 702, poi su fino alla cima della Rosette e poi giù, per il 701 fino agli ovetti di Col Verde. Mi dirigo alla volta del Passo di Baal.
In poco tempo sono su, e quando mi affaccio dall’altra parte, mi parte un’altra esclamazione di stupore. Che vista! Miseriaccia, che spettacolo!!!!
Mi addentro sul sentiero, con la voglia di guardarmi attorno, ma forse è meglio se guardo bene dove metto i piedi: il sentiero si stringe e si munisce di cavetto di sicurezza.
Non serve legarsi, ma nel caso servisse è lì, pronto all’uso. Avanzo sul traversone che mi deve riportare verso la Rosetta, sotto torri enormi e immagino le innumerevoli vie che li percorrono.
Ad un certo punto il sentiero sbuca su un improbabile prato: la prima traccia di verde da ieri!
Finisce in fretta, ché, girato l’angolo vedo l’infinita serie di noiossissimi tornanti che mi farà guadaganre quota fino a sbucare di nuovo in vista del rifugio Rosetta. Che noia!!!!
Movimento un po’la camminata, salendo alla Cima Rosetta (affollata dalla gente appena uscita dalla funiva) e ,dopo un ultimo sguardo a tutto quel bene di dio roccioso, comincio l’ultima discesa della giornata.
Peccato che sia la cosa più noiosa dei due giorni. Infiniti tornanti e curve che scendono sotto la funiva, sotto un sole che cominci a farsi forte.
Quando finalmente giungo alla stazione a monte degli ovetti, le mie gambe vanno in automatico verso la malga lì vicino. Mi merito un super panino rustego, ma soprattutto il riposo sul prato dietro la malga, cullata dal concerto di campanacci e muggiti.
Stesa nel verde, guardo in su, e stento ancora a credere che sopra la mia testa fra quelle montagne si sia incastonata una piccola parte di luna.
Coraggiosa Me: Sei andata per monti per conto tuo?
Normale Me: Sì!
Coraggiosa Me: Sei morta?
Normale Me: Beh, no!
Coraggiosa Me: Ti sei divertita?
Normale Me: Molto!
Coraggiosa Me: Eri soddisfatta alla fine?
Normale Me: Tantissimo! Coraggiosa Me: Ottimo. Vuoi riprovare aggiungendo qualcosa di nuovo? Normale Me: Mi piacerebbe, sì.
Coraggiosa Me: Bon, vai: due notti in rifugio e tre giorni a zonzo.
Normale Me: Ma...Boh, non so... Facciamo due giorni e una notte, per iniziare?
Coraggiosa Me: Sei proprio sempre la solita...Va bene, dai...un passo per volta, non sia mai che evolvi più in fretta del previsto!
Comincia con questa scena la mia avventura. Dopo alcune escursioni da sola, decido che è giunto il momento di provare a spostare l’asticella dei giri in solitaria. Me ne sto via a dormire, in rifugio, da sola. Meta: le Pale di San Martino. Chiamo il rifugio, mi assicuro una branda e parto.
Mi infilo in auto e sotto un cielo plumbeo risalgo la Valsugana, poi il Primiero fino a San Martino. Man mano che mi avvicino alla partenza, qualcuno si diverte a giocare con la cortina di nubi avvolta attorno alle Pale: un istante la chiude e un istante dopo la riapre, lasciandone trapelare ora la punta, ora la base. Questo continuo gioco sembra un invito: non ti mostro tutto, devi venire a vedere di persona cosa c’è quassù, forza!
Parcheggio, caccio due ultime cose nello zaino, e mi infilo nel primo ovetto che passa. Arrivo alla funivia, mancano pochi minuti alla partenza e io mi godo l’aria pungente del mattino (ormai non più tanto primo).
La gondola rossa parte e in pochi minuti arrivo “su”.
Esco e mi scappa una piccola imprecazione di meraviglia (sì, esistono). Che posto è questo?
La funivia si è presa un po’ troppa rincorsa e io sono finita su un altro pianeta?
Mi guardo attorno un attimo “stranita”, e cerco di mettermi in modalità operativa. Oggi devo arrivare sulla Fradusta, passando per il 707, il 709 ed il 711B. E poi devo scendere al Pradidali, per 709A. E’ il mantra che mi ripeto da questa mattina (e che mi sono scritta su un foglietto, non si sa mai). Bene, so a memoria i numeri: è già qualcosa!
Mi incammino ancora un po’ frastornata da questo strano mondo, lasciandomi alle spalle il Rifugio Rosetta, e cominciando a spingermi verso il centro dell’altipiano. Mano a mano che accumulo passi, accumulo anche stupore. Questo luogo è assurdo.
Pietre, pietre, pietre, pietre. Ah certo, e anche nuvoloni e nebbie alte, per l’occasione! Ogni tanto qualche fiorellino giallo si mette in mostra in mezzo alle...indovinate un po’...pietre, bravi!
Cammino un bel po’ guardandomi attorno, e ad un certo punto vedo l’unico punto di riferimento inequivocabile della mattinata: quel poco che resta del ghiacciaio della Fradusta.
Bon, se per caso mi perdo, devo solo ricordarmi di guardare quello. Solo che fa proprio tristezza, poverino. Io non l’ho mai visto prima, ma oggi il nome ghiacciaio sembra un po’ troppo “altisonante” per quella povera parete gelata.
Arrivo al bivio per il 711B e, dopo un controllo su Orux Maps, ricomincio a camminare in mezzo alle pietre. Fino ad ora, escludendo quelle che gravitavano attorno alla funivia, ho incontrato 2 persone. Mi inoltro nel saliscendi della traccia (siano lodati gli ometti e le nuvole che se ne stanno alte!) e arrivata ad un altro bivio, incontro altre 2 persone. Stop. Fino alla cima, questo è il numero massimo di persone incontrate. Siamo io, queste 4 persone diluite nell’arco di un’ora e miliardi di pietre, pietroni, pietrine. Comincio a sentirmi lontana dal monto dei vivi.
Sempre con un occhio sulla mappa, risalgo piano piano sulla spalla che porta in cima alla Fradusta e ogni tanto osservo i giochi delle nubi dentro i “fiordi” al fianco della cima.
Con calma arrivo su e, sorpresa! C’è vita sulla Luna! Trovo un gruppo CAI a cui scatto una foto dopo essermi gustata per pochi minuti la cima e le ombre che le nubi gettano sull’altipiano.
Saluto il gruppo e comincio a scendere, pian pianino, per tornare al bivio che mi porterà sul 709A. Interessante che, pur essendo esattamente sulla traccia di salita, io non ricordi assolutamente nulla di quella parte di sentiero. Ah, benon! Arrivo al bivio e mi cibo di barrette, che magari i neuroni ricominciano a funzionare. Imbocco il 709A e comincio a scendere verso il rifugio.
Sono di nuovo da sola. Scendo per ghiaioni e tornantini, tiro pure fuori i bastoncini (che, in realtà, mi impicciano più che aiutarmi) e scendo, scendo, scendo fino a che non arrivo ad un pianoro dove il mondo sembra finire in nubi.
Invece, basta affacciarsi per scoprire che il sentiero continua a scendere, inoltrandosi proprio in quella nuvola che si è incastrata là sotto. La visibilità è buona, ma sono sola. L’unico segno di vita è l’eco dei miei bastoncini. Tic, tic, tic, tic, sempre più giù, passando sotto grotte e lasciandomi alle spalle una muraglia di roccia che mi chiude la visuale.
Tic, tic, tic, tic, ancora bastoncini, ancora il loro eco, unico suono dei dintorni.
Orfeo avrebbe potuto benissimo venirla a prendere in mezzo a questa nuvola la sua Euridice. Per qualche istante, mi sento un po’ persa: troppo nulla. Poi la nuvola si alza, da lontano mi arriva la voce di qualcuno che sta esplorando il laghetto Pradidali, e finalmente anche il rifugio si mostra. Poche volte sono stata così contenta di sapere che avrei trovato “uomini” di lì a poco.
Comincia quella che avevo immaginato sarebbe stata la parte più difficile per me: gestire le ore da sola in rifugio. Per una sciocca questione di zaino, ho lasciato a casa il libro che volevo portarmi. Errore! Per fortuna, a far da surrogato al libro, c’è l’ultimo numero di Pareti. Via, leggiamo attentamente, fingendoci interessate a come ci allena per l’arrampicata su canne...
Fra un articolo e un solitario arriva l’ora di cena. Sono impaziente: chissà a fianco di chi mi siederò. Spero che abbiano tante belle storie da raccontare, i miei commensali: starò volentieri in silenzio a sentire di come era la tacca svasa di quella via, oppure di quella volta che han sbagliato le doppie o di quando si son trovati in mezzo alla bufera... Sarebbe davvero bello.
(Disclaimer: potete saltare le prossime righe se volete evitarvi uno sfogo antisociale.)
Peccato che non vada così. Finisco a tavola assieme all’unico gruppetto di “cittadini” presente in rifugio, E vabbè, fin qui, potrebbe anche andare bene. Il problema è che tali signori non fanno altro che lamentrarsi. Perché la pasta non c’è integrale. Perché la carne è fredda. Perché i funghi non sono di bosco (ma dove diavolo lo vedi il bosco quassù!?!?!?!? Ma sei cretina!?!?!??!?!!??). Perché non c’è scelta nel menù, l’acqua non è potabile, non c’è pane nero, in camera con loro c’è altra gente etc. etc. Io non sono di certo una di quelle persone che si batte per “chiudere” la montagna. Credo che una persona che si fa anche solo 50mt di dislivello a giornata, se li fa con passione e cuore e facendosi rapire dalla montagna, faccia bene a farli. Non sono per la montagna come luogo ad uso esclusivo di pochi eletti iniziati (perché, banalmente, io non sono un’eletta iniziata). Ma ci sono cose che non tollero! La maleducazione ricca di pretese stupide, in quota, è una cosa che detesto. Andate al Grand Hotel a Jesolo, se non sapete adattarvi alle piccole “scomodità” (ma sono davvero tali???) del rifugio, nemmeno per una notte!
La mattina, di fronte ad altri capricci da asilo sulla qualità della colazione, mangio in fretta, saluto i gestori (troppo pazienti con le teste di rapa) e me scappo lontano da questo specifico genere umano! E io che pensavo che la vista delle cime che si colorano al mattino potesse essere nutrimento sufficiente per tutti. Stolta.
(Fine sofogo antisociale)
Oggi devo risalire il 715, e poi il 702, poi su fino alla cima della Rosette e poi giù, per il 701 fino agli ovetti di Col Verde. Mi dirigo alla volta del Passo di Baal.
In poco tempo sono su, e quando mi affaccio dall’altra parte, mi parte un’altra esclamazione di stupore. Che vista! Miseriaccia, che spettacolo!!!!
Mi addentro sul sentiero, con la voglia di guardarmi attorno, ma forse è meglio se guardo bene dove metto i piedi: il sentiero si stringe e si munisce di cavetto di sicurezza.
Non serve legarsi, ma nel caso servisse è lì, pronto all’uso. Avanzo sul traversone che mi deve riportare verso la Rosetta, sotto torri enormi e immagino le innumerevoli vie che li percorrono.
Ad un certo punto il sentiero sbuca su un improbabile prato: la prima traccia di verde da ieri!
Finisce in fretta, ché, girato l’angolo vedo l’infinita serie di noiossissimi tornanti che mi farà guadaganre quota fino a sbucare di nuovo in vista del rifugio Rosetta. Che noia!!!!
Movimento un po’la camminata, salendo alla Cima Rosetta (affollata dalla gente appena uscita dalla funiva) e ,dopo un ultimo sguardo a tutto quel bene di dio roccioso, comincio l’ultima discesa della giornata.
Peccato che sia la cosa più noiosa dei due giorni. Infiniti tornanti e curve che scendono sotto la funiva, sotto un sole che cominci a farsi forte.
Quando finalmente giungo alla stazione a monte degli ovetti, le mie gambe vanno in automatico verso la malga lì vicino. Mi merito un super panino rustego, ma soprattutto il riposo sul prato dietro la malga, cullata dal concerto di campanacci e muggiti.
Stesa nel verde, guardo in su, e stento ancora a credere che sopra la mia testa fra quelle montagne si sia incastonata una piccola parte di luna.
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