Uscire dall euro e tornare alla lira....si può?

Riporto il link ad una inchiesta condotta tra addetti ai lavori: economisti, imprenditori, sindacalisti, operatori economici, rappresentanti di parti sociali, di tutte le tendenze politiche. Gente abilitata a parlare in questo campo. Solo il 6% è del parere che si debba lasciare l'euro. Di contro, più dell'80% ritiene che nel dibattito in corso siano ampiamente sottovalutati i rischi di abbandono della divisa unica. Ecco tutte le motivazioni. Buona lettura
http://espresso.repubblica.it/affari/2017/02/27/news/che-succede-davvero-se-usciamo-dall-euro-1.296226?ref=RHRR-BE
 
Da Direttanews24.it una studentesa, giovane ed emozionata.che a Rethinking Economics a Bologna lo scorso 23 Febbraio, con voce emozionata ha avuto il coraggio di dire la verità a Romano Prodi. Video e testo.

Anche gli studenti stanno capendo la truffa dell’euro. Questa studentessa di chiama Cristina Re




PROFESSOR PRODI MI PERMETTA DI RUBARLE DUE MINUTI
Le parlo come componente di quella che viene definita “Generazione Erasmus”.
Le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa.

di Cristina Re

“Salve professore,sono Cristina di Rethinking economics Bologna e la ringrazio per aver accettato il nostro invito. Detto ciò, però, questo è l’unico ringraziamento che mi sento di farle. Mi permetta di rubarle due minuti.
Le parlo come componente di quella che viene definita “Generazione Erasmus”. Eccola qui, la generazione Erasmus: una generazione nata e cresciuta all’interno dell’Unione Europea ed educata con la favola di un’Europa di cooperazione e obiettivi comuni, di uno spazio in cui viaggiare liberamente ed educarsi alla diversità. Un luogo di pace, prosperità e libertà.

La favola della nuova generazione Europea di studenti colti, aperti e con alta mobilità si scontra però con la realtà, ossia con la generazione dei disoccupati e dei lavoratori poveri. Infatti, solo l’1% degli studenti italiani partecipa a progetti di mobilità, mentre gli altri si trovano in situazioni di precarietà o disoccupazione. La disoccupazione giovanile nel 2017 è arrivata a superare il 40% e coloro che trovano lavoro sono costretti ad accettare orari e salari da fame con contratti a termine o retribuiti tramite voucher. In tantissimi sono costretti ad emigrare; alcuni svolgono attività di ricerca qui sotto finanziata altri sono costretti a lavori non qualificati e sottopagati, nonostante l’alto livello d’istruzione.



Il futuro dei giovani italiani è un futuro grigio e di cui lo Stato ha deciso di non farsi carico. Siamo una generazione abbandonata dalle istituzioni e, certo, non sarà tutta colpa dell’Unione europea, ma sicuramente per capire come migliorare bisogna prima individuare le colpe ed i colpevoli. L’italia ha scelto di condividere e mettere in atto lo smantellamento dello stato sociale: ha tagliato educazione, istruzione, protezioni sociali, investimenti industriali, ecc. Una situazione di cui nessuno vuole farsi responsabile ma che è strettamente collegata con l’adesione dell’Italia alle politiche neoliberiste.



Professore, lei, il 18 gennaio ha rilasciato un’intervista al Quotidiano.net in cui dice “la mia Europa è morta. Ma spero che la crisi la svegli. Ora possiamo solo aggiungere: preghiamo”
Beh, troppo semplice così.
Mi dispiace ma mi rifiuto di vivere in un paese che soffre di deficit di memoria. Che trasforma i carnefici in vittime e i colpevoli in eroi.

Non possiamo non dimenticare che lei, come presidente dell’IRI ha svenduto il patrimonio economico italiano a società private.

Lei partecipò in prima persona alla nascita dell’euro, prima come Presidente del Consiglio e poi come Presidente della commissione europea.

Lei non si è battuto per cambiare i criteri scellerati del trattato di Maastricht, nei quali l’Italia non rientrava, ma promise riforme future. Da quel peccato originale è succeduto un vortice di privatizzazione, tagli al welfare, sottomissione ai diktat franco- tedeschi, attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori con l’unico obiettivo di ridurre il nostro debito pubblico, rientrare nei parametri di Maastricht e renderci “competitivi”. Fu proprio durante il suo governo che venne approvato il pacchetto Treu che diede inizio al fenomeno della precarietà in Italia.

Durante il suo secondo mandato da Presidente del consiglio, poi, fu lei a firmare il trattato di Lisbona che di fatto era uguale alla Costituzione europea bocciata nel 2005 da francesi e olandesi.
Mi dispiace ma non può dire che questa non è la sua Europa. Questa è proprio la sua Europa.

Lei ha svenduto il nostro futuro e in cambio di cosa? Ecco cosa abbiamo ottenuto: la libertà di andare all’estero a fare i camerieri o di vivere una vita di precarietà e misera. Una vita che ha condotto molte persone alla disperazione ed alcuni anche al suicidio.
Adesso, non le chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi.
Però le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa.”.

http://scenarieconomici.it/ascoltate-la-studentessa-che-umilia-romano-prodi/










L’EUROPA E’ MORTA, CAMBIAMO L’EUROPA - A VERSAILLES HOLLANDE, MERKEL, RAJOY E GENTILONI RILANCIANO L’INTEGRAZIONE DEL CONTINENTE. COME? ACCETTANDO L’UE A PIÙ VELOCITÀ - LA CANCELLIERA: “SE CI FERMIAMO, CROLLA TUTTO. OGNI PAESE DEVE POTER AVANZARE AI PROPRI RITMI”


Paolo Levi per “la Stampa”

A Versailles nasce l'Europa a più velocità. A tre settimane dalle celebrazioni del 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, dalla reggia del Re Sole, alle porte di Parigi, arriva il solenne appello dei leader di Italia, Francia, Germania e Spagna - le quattro potenze demografiche (ed economiche) del continente - mai così unite nel dire che oggi lo status quo dell' Unione «non è più sostenibile».

[...]

la «solidarietà a Ventisette ma anche la capacità di avanzare a ritmi diversi» :DDD :DDD

[...]

Paolo Gentiloni. Serve una Ue «più integrata ma che possa consentire diversi livelli di integrazione :DDD :DDD
 
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L'Europa non è Leuropa (UE for dummies)

giovedì 2 marzo 2017

Anche se spesso i nostri giornalisti - oltre che piddini vari, preda di auto-razzismo patologico - fanno finta di ignorarlo, l'Unione Europea non è l'Europa (dalla quale, in quanto mera espressione geografica, non usciremo mai fino a quando non lo vorrà la deriva dei continenti) bensì Leuropa. Imperfetta quanto si vuole - dal momento che la vera Leuropa è sempre Laltra, che non esiste - ma (secondo i sullodati scienziati) comunque un successo.
Ma cos'è, davvero, Leuropa? Perché lasciarla porterebbe a crisi economiche e corse agli sportelli (fenomeni notoriamente sconosciuti nei Paesi della Leuropa), piogge di sangue, invasioni di cavallette e, se del caso, morte prematura dei primogeniti, esattamente come sta accadendo nel Regno Unito della Brexit?

Leuropa (l'unica esistente) si basa su quattro pilastri (art. 26, c. 2, Tfue), il cui fine ultimo (non è la prosperità delle persone, o la coesione sociale, o la protezione dei deboli, o che so io, bensì) è la pura e semplice creazione di un mercato interno fortemente competitivo (artt. 101 e ss., Tfue).
(Certo, la creazione di un mercato interno può lasciare sul campo morti e feriti. La Commissione si può adoperare per ridurre un po' il dolore. Ma il dolore è salutare. Per cui le eventuali deroghe alle severe ma giuste regole leuropee "debbono avere un carattere temporaneo ed arrecare meno perturbazioni possibili al funzionamento del mercato interno").

(1) La libertà di circolazione dei capitali, ai sensi dell'art. 63, Tfue, vero cuore di tutto il Trattato ("nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi. Nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi").
Libertà di circolazione dei capitali significa, poi, evidentemente, possibilità per le aziende, ai sensi degli artt. 49 e ss. del Tfue, di delocalizzare ovunque entro gli Stati dell'Unione (che, come vedremo sotto, non possono apporre dazi intra-UE). Infatti, i capitali si esportano essenzialmente per investirli in Paesi diversi dal proprio. Ora, in mancanza di uniformità delle norme giuslavoristiche, tributarie, di sicurezza sul lavoro e di rispetto dell'ambiente, il venire meno delle frontiere ha ovviamente portato a una guerra stolida a colpi di dumping fiscale e di deflazione salariale (di recente il nostro governo ha pubblicizzato in apposito opuscolo quanto poco costino gli ingegneri italiani, rispetto al loro valore).
"Eh", direte voi, "ma non si può mica fermare il vento con le mani! Oggi siamo in un'epoca di globalizzazione!". Ma lo vogliamo capire che la globalizzazione non è un dato di natura, come un tornado o un terremoto, ma è un mero termine sintetico per riferirsi a un enorme e complesso sistema giuridico (o unione di sistemi giuridici), di natura pattizia trans-nazionale, che ha addirittura prodotto elefantiaci organismi giuridici (primo fra tutti il WTO)? La globalizzazione passa per il TTIP, per il CETA, cioè per trattati multilaterali di migliaia di pagine, oggetto di negoziati ai più alti livelli politici. La globalizzazione è norma, giurisdizione, normativa (altra cosa è il commercio internazionale. Che c'è sempre stato e sempre ci sarà). Ma se si tratta del prodotto di accordi pattizi, anche la globalizzazione può essere ridotta, controllata, modificata. Vi sono state altri periodi di globalizzazione nella storia: quello iniziato attorno al 1870, per esempio, è terminato bruscamente nel 1914. Può concludersi anche questa (certo più subdola e complessa, soprattutto considerando il ruolo di sostanziale parità rispetto agli Stati nazionali di soggetti genuinamente privati: si pensi all'ICANN), speriamo senza una Guerra Mondiale.

(2-3) Le libertà di circolazione dei beni e dei servizi. Se delocalizzo il call center Almaviva in Culonia Citeriore, devo essere certo che non arrivi un Trump de' noartri a piazzarmi qualche normicina che mi vieti di godermi quei meravigliosi appalti pubblici che - proprio delocalizzando (v. sopra) e cioè imbrogliando - riesco ad accaparrarmi nel Bel Paese (da INPS, INAIL, Poste, Telecom e giù giù per li rami). Lo stesso dicasi se voglio importare qui - senza dazi, che (come detto sopra) sono vietati tra i singoli Paesi dell'UE - piumini cuciti in Transnistria Antanica. Le norme di riferimento sono l'art. 28, c. 1, Tfue ("l'Unione comprende un'unione doganale che si estende al complesso degli scambi di merci e comporta il divieto, fra gli Stati membri, dei dazi doganali all'importazione e all'esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l'adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i Paesi terzi") e l'art. 56, c. 1, Tfue ("le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione").
Tuttavia, esistono anche dazi non monetari. Per questo, tra le norme a tutela della Dea Concorrenza, vi sono anche quelle contro gli Aiuti di Stato. Tra queste, riporto l'art. 107, Tfue, perché aiuta a capire la genetica asimmetricità dell'UE: "salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Sono [invece] compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti; b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; c) gli aiuti concessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera [sì, bau!, N.d.R.]. Possono [non devono, N.d.R.] considerarsi compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione...; b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato membro; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria all'interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione".
Un'ulteriore riflessione. Io, come detto produttore di piumini in Transnistria (come tale molto più attento al benessere delle oche lavorate che degli uomini lavoranti), sono anche importatore dei medesimi piumini in Italia; pertanto, non avere rischi di cambio tra Transnistria e Italia mi potrebbe fare non poco comodo. Magari questo aiuta a capite perché ci sono alcuni che si ostinano a difendere un esperimento morto in culla come l'Euro.
La questione dei dazi in UE è ancora più complessa. I dazi verso l'esterno, infatti, sono stabiliti a livello di Unione (cioè sono leuropei), e possono comportare ulteriori distorsioni a favore di alcuni Stati membri e a danno di altri. Decidere di imporre dazi sull'importazione di aringhe e non su quella di olio, o viceversa, evidentemente ha un riflesso per Paesi del Nord e Paesi del Sud (ovviamente, le cose stanno così e così e così).
(Molto si potrebbe dire, tra l'altro, su queste decisioni che paiono meramente tecniche e invece sono scopertamente politiche: si pensi alla valutazione ai fini del rispetto dei vincoli di bilancio delle spese per la ricostruzione delle zone colpite da terremoto, ove si ponga mente alla diversa sismicità dell'Italia rispetto, per dire, a Germania o Olanda. E questo con buona pace del principio di solidarietà di cui parla l'art. 222 del Trattato).

(4) La libertà di circolazione dei lavoratori (art. 45, Tfue).
Se voglio che la libertà di spostare liberamente i capitali sia effettiva (motivo di fondo per cui è nata Leuropa), devo anche poter spostare gli uomini che utilizzano le relative immobilizzazioni (ne hanno saputo qualcosa a Torino, negli anni Sessanta e Settanta; il Tfue non si nasconde le difficoltà connesse a tali spostamenti; le cita all'art. 46, c. 1, lett. d, una delle tante norme di quel testo che rimarranno per sempre lettera morta).


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Però, siccome una cosa è migrare entro un unico Paese, altra da uno Stato (con una lingua, una tradizione, una cultura, una religione, un clima) a un altro (con diversa lingua, diversa tradizione, diversa cultura, diversa religione), ecco che ci si inventano mille strade per eradicare le persone (l'Erasmus) o per distruggere le comunità (l'immigrazione: in questo ha ragione Barbara Tampieri, che sottolinea come il fine di sostituzione etnica sia addirittura più importante rispetto alla volontà politica di creazione di un esercito industriale di riserva in vista di una permanente deflazione salariale).
Dice: "Eh, ma ci sono tante norme nel Tfue a favore del lavoro! Addirittura, l'art. 147 parla di livello di occupazione elevato!". A parte il fatto che, rispetto all'obiettivo costituzionale della "piena occupazione", già si tratta di un passo indietro, mi piace riportare l'art. 145, di cui non serve neanche un commento, per capire l'effettività di quella disposizione: "gli Stati membri e l'Unione... si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore dell'occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici...,". Non solo, il massimo si raggiunge con l'art. 151, non a caso posto a incipit delle disposizioni "sociali" del Trattato: "l'Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali..., hanno come obiettivi la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione. A tal fine, l'Unione e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell'economia dell'Unione. Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l'armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative.".
Tutto questo - in realtà e con buona pace degli estensori del testo di cui sopra - genera, per quasi tutti, soltanto maggiore povertà. Il che significa, specularmente, grandissimi guadagni per molto pochi.
Non solo: i molto pochi, in questo modo, hanno i capitali per far comprare ai tanti le loro merci mediante finanziamenti, così da poter godere non soltanto dei ricavi, ma anche degli interessi. Se ci si somma la pressione al ribasso sui salari, nonché la circostanza che la sullodata povertà comporta la trasformazione del diritto di emigrazione in obbligo, eh be', il guadagno è quadruplo.

Poi c'è l'Unione Economica e Monetaria.

Il tutto, infatti, non funzionerebbe in modo così perfetto, se le dinamiche volte alla deflazione salariale e alla conseguente finanziarizzazione dell'economia potessero essere obliterate o quanto meno attenuate da politiche anticicliche statali, in termini sia di allentamento fiscale sia di spesa pubblica in deficit.
Per questo è nato l'Euro. Per questo la Banca Centrale Europea è stata resa indipendente.
Ai sensi dell'art. 119, Tfue, "l'azione degli Stati membri e dell'Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l'adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione comprende una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell'Unione conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Queste azioni degli Stati membri e dell'Unione implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane [chi è interessato può vedere l'art. 126, Tfue, N.d.R.] nonché bilancia dei pagamenti sostenibile".
Ai sensi dell'art. 123, c. 1, invece, "sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri... a istituzioni, organi od organismi dell'Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali".
Chiaro? La politica monetaria la fa la BCE e solo la BCE, e la fa con lo scopo precipuo di mantenere un basso livello di inflazione (art. 127, Tfue); pertanto il "divorzio" tra circuito democratico (elezioni, parlamento, governo) e banca centrale dev'essere completo (art. 130, Tfue), addirittura fino a vietare l'acquisto in asta dei Titoli di Stato.
Questo sistema crea, evidentemente, scarsità di risorse per gli Stati membri, i quali sono strozzati da vincoli di bilancio che non permettono le suddette politiche anti-cicliche, meno che mai il varo di importanti progetti pubblici.
Ma non solo: l'esistenza di un'unica moneta, l'Euro, per vari Stati membri - per di più, come detto, stretti in questa specie di Camicia di Nesso che sono le norme europee (rese ancor più stringenti dalle varie norme che vanno sotto il nome di Fiscal Compact) - non permette neppure gli aggiustamenti di cambio che permetterebbero una mitigazione automatica degli effetti di eventuali shock asimmetrici su alcune economiche rispetto ad altre, o sui differenziali di produttività fra le stesse.
In mancanza di questo meccanismo, shock e differenziali di produttività si scaricano necessariamente sul costo del lavoro, cioè - in pratica - sui salari, che vengono inesorabilmente compressi (a vantaggio, con tutta evidenza, dei profitti).
Questo intende il prof. Bagnai quando dice che la moneta è un'istituzione volta a regolare il conflitto distributivo.

Questa è Leuropa. Non Laltra. Quella che c'è. L'unica che ci può essere. Così è, se vi piace.
 
2 volte lo stesso link in un giorno è quasi spam o arterio !?!


REPUBBLICA ITALIANA E IDEOLOGIA DEL VINCOLO ESTERNO
6 MARZO 2017
L’idea di risolvere i conflitti interni di un paese ricorrendo ad aiuti esterni è tipica dei paesi in via di sviluppo, o di quelli di recente costruzione, o comunque poco coesi. Non è chiaro quanto questo metodo sia davvero utile allo sviluppo dei paesi, tuttavia con il progresso economico e sociale le caratteristiche che li rendono fragili tendono gradualmente ad attenuarsi di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della struttura produttiva. L’Italia è una nazione relativamente giovane, unita 150 anni fa quando ancora però c’erano da “fare gli italiani”. Passata attraverso due guerre mondiali, prende forma come Repubblica solo 70 anni fa. L’Italia repubblicana ha sempre conosciuto una qualche forma di vincolo esterno, a cominciare da una fase iniziale di relativa prosperità, guidata dalla ricostruzione post bellica sostenuta dagli Stati Uniti. Con la fine del sistema di Bretton Woods, l’Italia cerca di ritrovare un aggancio esterno, prima con il sistema monetario europeo e poi – dopo il suo fallimento – con l’unione monetaria europea. Questi vincoli diventano sempre più stringenti, poiché la liberalizzazione dei movimenti di capitali, assieme alla rigidità del cambio, alla perdita della politica monetaria e ai limiti alla politica fiscale, limiteranno fortemente la capacità di condurre le politiche macroeconomiche a livello nazionale.

Il vincolo esterno

Verso la fine degli anni ’70, l’ex-governatore della Banca d’Italia Guido Carli professa tutto il suo pessimismo rispetto alla qualità della classe politica italiana e alla sua capacità di guidare il paese in uno spirito di modernità e riformismo, richiesto dal funzionamento di un’economia di mercato.

Successivamente scriverà: “La nostra scelta del ‘vincolo esterno’ nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese”. (Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana).

In particolare, il controllo della politica monetaria, resa prima indipendente da quella fiscale e in seguito addirittura ceduta a un’entità sovranazionale difficilmente controllabile da qualsiasi governo, poteva definitivamente risolvere il conflitto interno, vincendo le resistenze di chi a sinistra voleva mantenere un ruolo importante dello stato nell’economia. Il vincolo esterno consentiva di indebolire i governi, spingendoli a prendere decisioni impopolari: non avendo più la politica monetaria a disposizione, ogni aggiustamento doveva essere necessariamente realizzato attraverso svalutazione interna di prezzi e salari, con buona pace dei sindacati, dei movimenti operai, dei rappresentanti politici del mondo del lavoro; la proibizione per la banca centrale di garantire il debito pubblico, metteva sotto pressione anche la politica fiscale; l’unica leva a disposizione rimaneva una politica dei redditi destinata ad assorbire tutti gli squilibri macroeconomici. Non tutti gli intellettuali dell’epoca sottoscrissero questa visione, si pensi ai dubbi di Federico Caffè in merito, e nemmeno tutti i partiti politici, si pensi alle posizioni del PCI fino al 1978 in merito all’adesione al sistema monetario europeo. Tuttavia pezzi fondamentali di classe dirigente italiana sposarono appieno la linea di Carli e si adoperarono per realizzarla.

Il primo e più convinto sostenitore delle virtù del vincolo esterno nel disciplinare partiti, sindacati e amministrazioni pubbliche italiane fu Carlo Azeglio Ciampi. Di fatti il primo e più importante passo fu il cosiddetto “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, realizzato nel 1981 da un gruppo di tecnici, guidati da Ciampi per la Banca d’Italia e da Beniamino Andreatta per il Ministero del Tesoro, senza passare per alcun dibattito parlamentare. La portata storica di quella decisone è facilmente intuibile: da quel momento in poi la Banca d’Italia toglieva la garanzia del collocamento integrale dei titoli di stato, cioè eliminava la possibilità di calmierare i tassi d’interesse che il mercato poteva richiedere allo stato per rifinanziare il suo debito, di fatto mettendo lo stato in mano al mercato. “Un importante progresso” lo definì Ciampi nelle sue considerazioni finali di quell’anno, perché:”solo arrestando il degrado monetario si può ottenere un durevole ritorno dei privati sui titoli a lunga e ottemperare al dettato della tutela del risparmio” (p.896).

Vale la pena ricordare che in quel momento il debito pubblico italiano era basso, che esso aumentò vertiginosamente nel decennio successivo, e soprattutto che la maggior parte dell’aumento non fu dovuto alla spesa corrente ma alla spesa per interessi. In altre parole, dal 1981 lo Stato fu vincolato al ricatto del mercato, che poté limitarne da lì in poi il margine di manovra. Inoltre le politiche monetarie della Banca d’Italia furono orientate al mantenimento della parità di cambio imposta dal sistema monetario europeo, piuttosto che al mantenimento della parità di cambio imposta dal sistema monetario europeo, piuttosto che a considerazioni di equilibrio economico interno.

Spesa primaria (esclusi interessi sul debito) e spesa totale in % al PIL

Italy Interest PaymentsFonte: Fondazione Robert Schuman, dati Banca d’Italia.

Il secondo passo fondamentale del “vincolismo” fu l’adesione a un sistema monetario sovranazionale, che vincolasse anche la politica monetaria già indipendente della Banca d’Italia. Il sistema monetario europeo era l’anticamera del progetto di unificazione monetaria; la firma del Trattato di Maastricht, il cui negoziato per l’Italia fu condotto dallo stesso Carli, rappresentò poi il sigillo alla costruzione del vincolo esterno. La mobilità dei capitali, la perdita della leva di politica monetaria, la proibizione di trasferimenti, l’assenza di un bilancio comune e di qualsiasi meccanismo di stabilizzazione automatica, e i vincoli asimmetrici alla politica fiscale nazionale, configuravano un potentissimo vincolo esterno di impronta neoliberista, che non avrebbe più permesso ad alcun governo di sfuggire all’agenda politica ed economica dominante: pressione sulla sostenibilità del debito pubblico, quindi dismissioni del patrimonio pubblico e privatizzazioni, svalutazione del lavoro e compressione salariale, aumento del credito (debito) per compensare la domanda interna, e finanziarizzazione dell’economia. Tale agenda dominante fu un consenso maturato fra le élites tecnocratiche, che contribuì all’affievolimento del potere di controllo democratico e a una vera e propria “de-democratizzazione” nei paesi che vi aderirono.

L’idea di fondo era che le tensioni redistributive interne fra capitale e lavoro potessero sostanzialmente risolversi vincolando la politica monetaria e scaricando sulla svalutazione del lavoro il peso di ogni aggiustamento macroeconomico. Inoltre, il nuovo consenso stabiliva l’inefficacia degli stimoli della politica fiscale, indipendentemente dalla situazione congiunturale del ciclo economico. È paradossale che le teorie sulle quali queste convinzioni si basavano considerassero i cittadini allo stesso tempo come degli individui perfettamente informati e razionali da scontare in anticipo gli effetti futuri sulla tassazione di un’espansione fiscale presente, ma anche degli individui completamente incapaci di scegliersi un governo e una politica economica adeguata, attraverso un processo elettorale. In questo paradosso si riassume la contraddizione interna del modello teorico al quale l’Italia si stava vincolando.

La classe dirigente

Il PCI, che pure aveva maturato al suo interno una riflessione acuta e profonda sui rischi dell’adesione al sistema monetario europeo (si pensi ai discorsi di Spaventa, Barca, e Napolitano), cambiò bruscamente rotta alla fine del 1978. Sarà interessante per gli storici andare a studiare cosa esattamente accadde in quei mesi, successivi all’assassinio Moro, in cui la dirigenza del più grande partito comunista d’occidente accettò di fatto le linee programmatiche di politica macroeconomica del grande capitale, con l’obiettivo di diventare “credibile” come forza di governo. Lo diventerà, poi, forza di governo, nel mondo post-comunista, nella cosiddetta “seconda Repubblica”, nelle sue nuove varie forme (PDS, DS, PD), anche se non è forse un caso che non riuscirà mai a trovare fra le sue fila ed esprimere una personalità in grado di gestire il Ministero più importante per l’indirizzo di politica economica, quello dell’economia e delle finanze, dovendo sempre appaltare a “tecnici” e “indipendenti” la gestione della politica economica, da Ciampi fino a Padoan.

Inizialmente poteva forse esserci un po’ di pudore, nel trovarsi ad applicare politiche deflazionistiche di svalutazione interna, attraverso moderazione salariale, e di limitazione del ruolo dello stato, attraverso privatizzazioni su larga scala dei servizi pubblici più importanti. In seguito divenne chiaro come si trattasse anche di palese inadeguatezza, mancando nella classe politica PDS-DS-PD le competenze tecniche essenziali per la gestione economica di un paese. Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, furono tutti tecnocrati, indipendenti, molto “credibili” in quanto alla loro adesione al consenso neoliberista che sembrava dominare il mondo. Per questo furono subito erti a paladini della nuova “sinistra”, che per governare era disposta a fare ciò che un tempo rimproverava alla destra. I governi di centro-sinistra sposarono in pieno i dettami imposti dal vincolo esterno: la riforma del lavoro, che iniziava il lungo processo di svalutazione interna introducendo precarietà e moderazione salariale, fu opera del Governo Prodi; le privatizzazioni (le più grandi realizzate in un paese europeo) furono opera dei Governi Amato, Prodi, e D’Alema, tutte gestite dal potente Direttore Generale del Tesoro, Mario Draghi.

Il centro-destra durante tutta la cosiddetta “seconda Repubblica” rimase prigioniero del sistema di interessi personali del suo leader, Silvio Berlusconi, che sembrava più interessato ad aggirare i vincoli, esterni come interni, cercando per lo più vantaggi per sé e per le proprie aziende, piuttosto che a proporre una vera alternativa. La classe politica del centro-sinistra, invece, ha sempre diligentemente dato il suo appoggio politico alla linea economica imposta dal vincolo esterno, lasciandola gestire da “tecnici”, cosiddetti “indipendenti”. Si arriva così all’appoggio a Mario Monti e alla dottrina dei giovani parvenus à la Renzi, secondo cui “le riforme le facciamo perché vogliamo noi e non perché ce le chiede l’Europa”. Poco importa che esse siano esattamente quelle imposte dal vincolo esterno.

Verso una maturazione

L’ostacolo principale per un’uscita dell’Italia dai vincoli esterni sarà quello di creare una classe politica all’altezza, capace non più di fare da “passacarte” delle burocrazie internazionali, ma di ricostruire e guidare un paese, per la prima volta pienamente autonomo e responsabile del proprio destino. Vorrebbe dire avere una classe dirigente capace di trattare alla pari con le principali diplomazie mondiali e con le burocrazie internazionali. Vorrebbe dire saper ponderare ogni scelta politica, prevederne le conseguenze e anticipare le reazioni degli altri. In altre parole, saper stare sulle proprie gambe. Questo era proprio il motivo di pessimismo che spingeva Carli quarant’anni fa a ritenere che, a differenza di paesi “maturi” come la Francia, l’Italia avesse invece bisogno di essere affidata al vincolo esterno.

Questa nazione relativamente giovane è stata legata mani e piedi a un vincolo esterno progressivamente più stringente, che nel bene e nel male ne ha condizionato la storia durante gli ultimi decenni. Si può argomentare che in fondo fossero valide le ragioni di quei “vincolisti” che decisero di limitare drasticamente l’autonomia e la sovranità politica nazionale nei decenni a venire, in quanto scettici riguardo le capacità della classe politica nazionale di operare per il bene del paese. Infatti gli ultimi a prendere una decisione vitale per il futuro del paese e che ne avrebbe condizionato l’esistenza per molti decenni a venire furono proprio loro, con i risultati fallimentari che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Quella sfiducia di fondo nella classe politica nazionale, quindi, potrebbe essere letta come una auto-sfiducia nelle proprie capacità. Senz’altro giustificata, col senno di poi.

Le ragioni dei “vincolisti” potranno essere smentite solo quando arriverà una nuova classe dirigente italiana, che avrà il compito di superare l’affidamento al quale il paese è stato consegnato in questa sua fase adolescenziale, per permettergli di camminare sulle proprie gambe e per evitare di frustrarne la vita da adulto. Il conflitto di classe interno, che ha caratterizzato la storia economica dell’Italia, va oggi progressivamente sfumando, man mano che tutto il paese scivola in una stagnazione e in un impoverimento senza fine. Quando questo processo sarà fermato, probabilmente con grandi costi e sacrifici, sarà importante trarre una lezione anche dalla fase che stiamo vivendo: il conflitto distributivo interno non dovrà più invocare il ricorso ad aiuti esterni, nella forma di vincoli che penalizzino una parte del paese, anche se è la parte avversa.

Il rischio è che, una volta messo il destino del paese in mani esterne, poi non si possa più tornare indietro, quando si prende atto che l’impoverimento e la sconfitta di una parte (il lavoro) finisce per trascinare con sé anche l’altra (il capitale).

Agenor
 
Pensa che a te che sono anni che posti le stesse cose :DDD

Ma dato che non son farina del suo sacco non se ne accorge...

Infatti non entra nel merito delle obiezioni, lui posta post su post suppost suppost...

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Adesso andra' in Scozia a convincere gli euro-sostenitori a non fare il referendum anti Brexit...chissa' perche' gli scozzesi non son felici della hard-brexit che i "cugini" inglesi stan delineando anche per loro; a sentir la loro rappresentante, anzi, sarebbero anche diposti a rendere il Regno Unito meno unito di prima.
 
Però sarebbe ora di fare un po' di chiarezza su queste bufale anonime postate senza nessuna responsabilità da parte di chi le rilancia in rete. Più che altro è un modo per turlipinare i lettori e, al di là degli aspetti giuridici, mi sembra una modalità un tantinello irrispettosa dell'intelligenza altrui.

Interessante questo articolo da Repubblica.it

ROMA – Beppe Grillo gioca a nascondino. E non da ora. Almeno dal 2012 tutte le denunce per calunnia e le querele per diffamazione rimbalzano contro un sistema di scatole cinesi destinate a creare confusione, nella migliore delle ipotesi. A schermare l’effettiva titolarità del Blog, a voler pensare male. Sta di fatto che individuare la reale titolarità della pagina web tra le più cliccate e politicamente attive d’Italia è un po’ come «andare alla ricerca del Sacro Gral», per dirla con l’avvocato Guido Scorza, uno dei massimi esperti di diritto delle nuove tecnologie, sulla scia della vicenda portata alla luce dal tesoriere Pd Francesco Bonifazi con la querela seguita alle pesanti accuse rivolte al partito per la vicenda petrolio e ministro Guidi di un anno fa. Col conseguente muro opposto dal capo dei Cinque Stelle e dai suoi avvocati che hanno "contestato la riconducibilità ad esso del blog", come si legge nella loro difesa.

Grillo, attraverso la stessa pagina, in queste ore si difende: "Il Blog beppegrillo.it è una comunità online di lettori, scrittori e attivisti a cui io ho dato vita e che ospita sia i miei interventi sia quelli di altre persone che gratuitamente offrono contributi. Il pezzo oggetto della querela del Pd - scrive - era un post non firmato, perciò non direttamente riconducibile al sottoscritto. I post di cui io sono direttamente responsabile sono quelli, come questo, che riportano la mia firma in calce". Dunque per il leader "nessuno scandalo, nessuna novità. Se non il rosicamento del Pd per aver per il momento perso la causa, cosa che Bonifazi ha scordato di dire. Nessuna diffamazione. Nessun insulto. Semplice informazione libera in rete. Malox?" Come fosse una community, dunque, in cui lui dirige soltanto il traffico. Ma è realmente così?

La vicenda è solo l’ultima. E quella che a differenza di altre è emersa dall’anonimato. Primo indizio. Il registro nazionale dei nomi a dominio ("Whois") dice che il dominio non fa capo in effetti al comico. «E' almeno dal 2012 che la contraddizione è esplosa», racconta l’avvocato Scorza. «Cinque anni fa, un analogo processo si è tenuto a Modena perché è emerso che il sito è intestato allo sconosciuto signor Emanuele Bottaro, residente a Modena, almeno stando a whois.net». In quell’occasione, guarda caso, a difendere davanti ai giudici il signor Bottaro è stato l’avvocato del foro di Genova Enrico Grillo, cugino del più noto Giuseppe.

Il secondo indizio porta al titolare dei diritti d’autore della pagina “Beppegrillo.it”. Ebbene il soggetto che imputa a sé quei diritti è la Casaleggio Associati. «Una eventuale azione risarcitoria non investe necessariamente il titolare di quei diritti, ovvero dei credits, come si dice in gergo – spiega Scorza – Ma a è pur vero che il titolare dei credits sta al blog come l’editore a un giornale". Ecco il secondo passaggio. Non è detto che il gestore dei diritti d'autore debba rispondere di tutti i contenuti pubblicati on line sul sito.

Terza scatola. Quella che porta alla policy privacy. Basta cliccare sull’omonimo link della pagina del leader Cinque Stelle per scoprire chi sia il “titolare del trattamento” del blog, il deus ex machina, diremmo: è lui. Ma quella titolarità Grillo la delega in qualche modo, anche qui, a Davide e alla società ereditata dal padre. "Titolare del trattamento ai sensi della normativa vigente è Beppe Grillo - si legge sul blog - mentre il responsabile del trattamento dei dati è Casaleggio Associati srl, con sede in Milano, Via G.Morone n.6". Come se non bastasse, entra in gioco un terzo soggetto: l’Associazione Rousseau. Chiamata in causa con una contorsione anche grammaticalmente complicata, forse non a caso. «I dati acquisiti – si legge infatti - verranno condivisi con il "Blog delle Stelle" e, dunque, comunicati alla Associazione Rousseau, con sede in Milano, Via G. Morone n.6 che ne è titolare e ne cura i contenuti la quale, in persona del suo Presidente pro-tempore, assume la veste di titolare del trattamento per quanto concerne l'impiego dei dati stessi".

Un labirinto, insomma, all’interno del quale anche i più esperti fanno fatica a districarsi. "Questo della policy privacy è un altro elemento che non fa chiarezza ma aggiunge confusione perché in genere il titolare del trattamento dei dati personali è anche il gestore del sito internet", spiega l’avvocato Scoza. "Per altro quest’ultimo passaggio supporta la tesi secondo cui in un modo o in un altro il gestore del sito internet sia proprio Beppe Grillo. Più che di scatole cinesi, una dentro l’altra, in questo caso sembra piuttosto che le scatole siano state poste una accanto all’altra quasi a creare un labirinto, appunto».

Non appena è esploso il caso, il deputato renziano del Pd Ernesto Carbone ha pubblicato via Twitter uno stralcio del documento con cui Beppe Grillo, dopo fughe, strappi e polemiche interne aveva rivendicato la sua esclusiva potestà del sito, pur concedendo una pagina interna al Movimento. «Giuseppe Grillo, in qualità di titolare effettivo del blog raggiungibile dall’indirizzo www.beppegrillo.it, nonché di titolare esclusivo del contrassegno di cui sopra, mette a disposizione della costituita Associazione la pagina del blog www.beppegrillo.it/movimento5stelle. Spettano dunque al Signor Giuseppe Grillo titolarità, gestione e tutela del contrassegno, titolarità e gestione della pagina de blog».

Sembrerebbe
la rivendicazione autografata dal diretto interessato. I suoi avvocati, di fronte all’ennesima querela però, dicono ora che non è. Sarà un giudice – una volta per tutte - a scoprire e rivelare chi si nasconda realmente dietro le scatole.
 
lo scrivo qua visto che non ci sono altri lidi.

Che schifo che fa il nostro governo! Ma come si fa a nominare un viscido come Profumo,invischiato anche in MPS, come Ad di Leonardo,ex finmeccanica! Moretti, anche se mi sta sui maroni, stava facendo un buon lavoro, commesse in aumento e pure un utile e stacco del dividendo.

Hanno intenzione di svendere anche quest'azienda?
 
Profumo è uno dei migliori manager italiani.

'Invischiato in Mps' cosa significa? È stato chiamato qualche anno fa a salvarla, smettiamola con sta infamata da blogger Napalm51 che avere un rapporto con qualcosa dove succede qualche casino vuol dire essere responsabile di quel casino. Vai dentro alle cose e dimmi PRECISAMENTE E DETTAGLIATAMENTE di cosa lo accusi. Entrate nel merito caz.zo. O tacete!
 
Profumo è uno dei migliori manager italiani.

'Invischiato in Mps' cosa significa? È stato chiamato qualche anno fa a salvarla, smettiamola con sta infamata da blogger Napalm51 che avere un rapporto con qualcosa dove succede qualche casino vuol dire essere responsabile di quel casino. Vai dentro alle cose e dimmi PRECISAMENTE E DETTAGLIATAMENTE di cosa lo accusi. Entrate nel merito caz.zo. O tacete!


Secondo me fai prima a tacere te, il mercato ha preso tanto bene la nomina che da quando è stato nominato il titolo ha perso il 10% in circa 3gg

Poi dal 2012 era Presidente di MPS, ogni anno chiudeva con "perditine", per concludersi sino alle sue dimissioni con l'anno precedente in rosso di 5 miliardi, ma si vede che per te sono briciole.

In Unicredit ha lasciato una situazione disastrosa :http://archivio.panorama.it/economia/Unicredit-l-eredita-di-Alessandro-Profumo-e-un-banco-minato( Solo per farti tornare un pò di memoria), una situazione talmente schifosa che Unicredit la stà pagando ancora oggi.

:KEV:KEV:KEV

Quindi chi parla un pò a vanvera sei tu. Una nomina di merda, se poi paragonata al gigante Moretti, anche se mi duole dirlo, che ha operato al meglio in Finmeccanica.

Se proprio dovevate nominare un manager era meglio Caio, ma non questo individuo!

Come si fa a parlare di signor manager, ma per l'amor di dio,facciamo i seri
 
renzi-nomine-pubbliche-883603.jpg

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/profumo-vertice-leonardo-provoca-tonfo-borsa-3-143988.htm
Debutto col “botto” per il neo amministratore delegato di Leonardo-Finmeccanica, Alessandro Profumo. La Borsa con il -3,6% (qualche decina di milioni bruciati al vento), non sembra aver gradito la scelta del governo Gentiloni di affidare a un banchiere la guida di un gruppo industriale impegnato nei settori strategici dell’aerospazio e della sicurezza, che richiede capacità manageriali sui mercati internazionali delle commesse militari. “Una follia!”, è stato il commento di un ex manager del gruppo di Piazza Montegrappa.

Ma i malumori più forti si registrano al ministero della Difesa e tra i nostri vertici militari che fino all’ultimo hanno contrastato la scelta di Profumo impegnato in un viaggio in Algeria.
Alla fine della contesa l’ha spuntata l’asse Renzi-Padoan, supportati dal potente capo della segreteria del Mef Fabrizio Pagani, che avevano cercato di coinvolgere anche il Quirinale nella partita delle nomine pubbliche.

Ma Sergio Mattarella non ha voluto mettere bocca sull’ultima tornata di lottizzazioni nonostante sia stato tirato più volte per la giacca. Lo stesso Profumo aveva cercato un “garante” più alto prima di accettare l’incarico rimasto in bilico fino all’ultimo. Non l’ha però trovato. E nei termini di legge presto dovrà spogliarsi sia di Equita sim sia della poltrona nella banca russa Sberbank. I conflitti d’interessi sono sempre dietro l’angolo.

.. da rottamatore a lottizzatore :KEV

ma siamo OT
 
Profumo... di offtopic ...


Io invece che profumo sento odor di merda. Una volta che avevamo un'azienda con commesse in aumento, in attivo, che decide di pagare il dividendo,si rovina tutto.

Infatti da quando ho sentito profumo di merda sono short sul titolo. E qua se tutto va come le precedenti esperienze di profumo, aspetto e mi faccio la mia pensioneHIHIHI.
 
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